Stop ai motori a combustione dal 2035
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Nel Green Deal europeo la messa al bando dei nuovi veicoli con motore a combustione interna dal 2035 è divenuta uno dei provvedimenti più discussi. Approvato nel 2023 tra forti contrasti, l’obiettivo è azzerare le emissioni allo scarico di auto e furgoni nuovi entro metà prossimo decennio, accelerando la transizione verso l’elettrico e contribuendo ai target climatici (riduzione della CO₂ del 55% al 2030 e neutralità al 2050). Il Parlamento UE votò a giugno 2022 a favore dello stop (339 sì, 249 no) respingendo richieste di ridurre l’obiettivo al 90%. Contestualmente, fu prorogata al 2036 l’esenzione per i piccoli produttori di nicchia, la cosiddetta clausola “salva Motor Valley” per proteggere case sportive italiane come Ferrari e Lamborghini. Già allora emersero preoccupazioni: l’associazione ANFIA stimò “70.000 posti di lavoro a rischio” in Italia per la perdita di componenti motoristici tradizionali, non compensata nell’immediato dall’elettrico. Esponenti di governo denunciarono una “soluzione ideologica e poco realistica” che avrebbe inciso su filiere e perfino su simboli nazionali (il Gran Premio di Monza “senza il rombo” dei motori a benzina).
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Il bando 2035 è essenziale per ridurre rapidamente le emissioni dei trasporti e rispettare gli accordi sul clima, accelerando l’innovazione verso tecnologie pulite.
Uno stop troppo rapido ai motori tradizionali minaccia i posti di lavoro nella manifattura e componentistica, colpendo intere regioni industriali e lavoratori.
Anticipare la svolta elettrica può rafforzare l’industria europea nel mercato globale dell’EV, creando filiere innovative e nuovi posti di lavoro “verdi”.
Il divieto assoluto privilegia un’unica tecnologia (l’elettrico), ignorando alternative come biocarburanti o ibridi avanzati che potrebbero ridurre emissioni.
Le deroghe per e-fuel e biofuel rischiano di essere escamotage costosi e limitati, che rallentano la decarbonizzazione senza benefici climatici significativi.
Le auto elettriche restano costose e le infrastrutture di ricarica carenti: imporle ai cittadini entro il 2035 potrebbe penalizzare le famiglie meno abbienti.
Stop ai motori a combustione è misura indispensabile per clima e salute, non si deve rinviare
Il divieto di vendere nuove auto a combustione dal 2035 è ritenuto dai favorevoli un passo necessario e urgente per allineare i trasporti agli obiettivi climatici ed evitare che l’Europa manchi i propri impegni ambientali. Il settore dei trasporti rappresenta circa un terzo delle emissioni di gas serra nell’UE e, contrariamente ad altri comparti, dal 1990 le sue emissioni sono aumentate invece di diminuire. Continuare a vendere auto benzina e diesel oltre il 2035 significherebbe restare agganciati ai combustibili fossili per decenni, mettendo a rischio il target della neutralità carbonica al 2050. Greenpeace calcola che per restare sotto +1,5 °C di riscaldamento sarebbe addirittura necessario anticipare al 2028 lo stop alle vendite di auto endotermiche. Ogni anno guadagnato nella transizione ha effetti tangibili: uno studio citato dall’ONG stima che terminare le vendite nel 2028, anziché 2035 taglierebbe circa “1,7 gigatonnellate di CO₂” entro fine anni ’40 e farebbe risparmiare ai cittadini europei oltre “600 miliardi di euro” in carburante. Per i sostenitori, quindi, il 2035 è già un compromesso tardivo: rinviarlo ulteriormente equivarrebbe a mancare i bersagli dell’Accordo di Parigi e a subire gli impatti sempre più gravi della crisi climatica (ondate di calore, eventi estremi) con costi sociali enormi. Inoltre, la qualità dell’aria urbana e la salute pubblica trarrebbero immediato giovamento dall’eliminazione graduale dei tubi di scarico: meno ossidi d’azoto, PM10 e altri inquinanti locali significheranno città più vivibili e un risparmio di spesa sanitaria (malattie respiratorie, decessi prematuri evitati). Nonostante i progressi dei motori termici, è impossibile conciliare l’obiettivo “zero emissioni nette” al 2050 con la vendita di veicoli fossili oltre metà 2030. La finestra temporale per agire sul clima si va chiudendo e i trasporti, rimasti indietro, devono dare un taglio netto alle emissioni. Basti pensare che i trasporti assorbono quasi due terzi del petrolio consumato in UE: senza interventi strutturali, tale dipendenza continuerà a finanziare regimi petroli-fondati e a esporre l’Europa agli shock dei prezzi energetici (si ricordi il caro-carburanti seguito all’invasione russa dell’Ucraina). La svolta elettrica, viceversa, contribuirà alla sicurezza energetica riducendo l’import di greggio. L’industria automobilistica ha già beneficiato di circa 13 anni di preavviso (2022–2035) per preparare la transizione, un orizzonte di pianificazione ragionevole. La Commissione europea, per voce del vicepresidente Dombrovskis, rivendica di aver definito “un quadro chiaro” con largo anticipo, così da dare certezza a investitori e produttori e “abbastanza tempo per pianificare una transizione equa”. Questo per confutare l’idea che la scadenza 2035 “piombi addosso” all’industria: chi è rimasto indietro ha forse peccato di miopia, non certo di mancanza di tempo. Infine, i fautori evidenziano che la conversione elettrica dell’auto non è più futuribile, ma una realtà in accelerazione: già nel 2023 le battery electric rappresentano circa il 16% delle vendite europee e i costi delle tecnologie pulite (batterie, rinnovabili) calano continuamente. Procrastinare l’inevitabile non farebbe che accumulare ritardi: “bloccare” la transizione ora significherebbe doverla fare di corsa più avanti, magari con obiettivi ancor più drastici, e perdere quel poco di margine che rimane per correggere la rotta climatica.
Sul piano sociale, gli ambientalisti ribattono punto su punto alle obiezioni “catastrofiste” dei contrari, spesso bollandole come miti infondati o esagerazioni. Ad esempio, l’argomento che le EV siano solo per ricchi ed élite viene contestato ricordando che già entro pochi anni il Total Cost of Ownership (costo totale di acquisto+uso) delle auto elettriche sarà inferiore a quello di un’auto tradizionale, grazie ai minori costi per “rifornimento” elettrico e manutenzione. Una maggiore diffusione farà poi scendere anche i prezzi d’acquisto per effetto di scala. Anche la narrativa per cui “mancano le colonnine” viene relativizzata: è vero che alcuni Paesi (come l’Italia) sono indietro, ma proprio fissare obiettivi chiari al 2035 serve a guidare gli investimenti nelle infrastrutture. L’UE sta parallelamente finanziando reti di ricarica rapida sulle arterie principali e molti governi stanno accelerando i piani di installazione. Non va dimenticato che la transizione sarà graduale: le auto termiche già circolanti potranno continuare a farlo, e nel 2035 le EV nuove sostituiranno progressivamente un parco motori con almeno 15–20 anni di vita residua. Agire ora è dunque fondamentale per avere effetti entro metà secolo. In ultima analisi, per i favorevoli il bando 2035 è un atto di responsabilità verso le prossime generazioni: rallentarlo significherebbe lasciare in eredità un clima più instabile e un’industria europea arretrata, costretta poi ad inseguire affannosamente tecnologie sviluppate altrove.
Nina Celli, 5 dicembre 2025
Transizione sì, ma graduale: salvaguardare lavoro e tessuto industriale
Gli oppositori del divieto 2035 sostengono di non essere contro la transizione ecologica in sé, ma di volerla rendere più realistica e sostenibile sul piano socioeconomico. Il mantra principale è che una scadenza così ravvicinata e rigida rischia di infliggere un colpo fatale all’industria europea, con conseguenze gravi per l’occupazione e i territori. In paesi come l’Italia e la Germania, la filiera automotive impiega centinaia di migliaia di persone tra operai, tecnici e indotto: il timore è che chiusure di stabilimenti e licenziamenti di massa possano diventare realtà se i motori termici verranno messi al bando prima che le aziende e il mercato siano pronti. L’associazione tedesca dei costruttori (VDA) ha accolto con favore i recenti segnali di flessibilità definendoli “una buona notizia per centinaia di migliaia di lavoratori” dell’automotive. Un rapporto di CLEPA (associazione europea dei fornitori auto) citato in un articolo AFP prevede oltre 60.000 posti di lavoro persi in Italia entro il 2035 solo tra i fornitori se si passa esclusivamente all’elettrico. Questo perché molte PMI producono componenti (motori, scarichi, cambi) che le EV non richiederanno più. “Demolire la filiera automotive italiana con la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro” è esattamente ciò che, secondo il senatore Arrigoni (Lega), farà la decisione di Bruxelles. Simili allarmi vengono lanciati dai sindacati metalmeccanici, preoccupati che senza adeguate misure si sacrificheranno i lavoratori sull’altare della transizione. Va ricordato che nel 2022–2023 importanti costruttori, come Stellantis, hanno ridotto la produzione in stabilimenti italiani e chiesto cassa integrazione a migliaia di addetti, in parte a causa del calo della domanda di motori tradizionali non compensata ancora dal ramp-up elettrico. Per i contrari, forzare ulteriormente questo sbilanciamento potrebbe tradursi in deindustrializzazione: l’Europa rischia di perdere una fetta storica del proprio manifatturiero se non gestisce con prudenza i tempi.
Accanto al fattore lavoro c’è quello del know-how e degli asset industriali. L’Europa ha costruito la sua eccellenza su motori a combustione efficienti (si pensi ai distretti tedeschi del diesel, alla “Motor Valley” emiliana). Mandare in pensione anticipata tali competenze significherebbe buttare via decenni di progresso tecnologico e posizioni di mercato ancora solide. “Accompagnare l’industria nella transizione non può significare smantellare interi settori”, ha dichiarato la premier italiana Meloni, alludendo proprio al rischio di desertificazione industriale. I contrari propongono perciò di diluire la transizione su un arco temporale più ampio, dando modo alle imprese di adattarsi senza traumi. Ad esempio, la mozione del PPE chiede di revocare il bando del 2035 e ridefinire target più attuabili, perché al momento l’obiettivo “sembra più irrealistico che mai”. Si suggerisce di mantenere in produzione per qualche anno in più i modelli ibridi plug-in o full-hybrid – come auspica anche il cancelliere tedesco Merz – così da preservare parte della filiera tradizionale e diluire gli investimenti necessari. Prolungare la vita di queste tecnologie “ponte” potrebbe aiutare a riconvertire gradualmente fabbriche e fornitori, tramite aggiornamenti invece che chiusure. “Il nostro obiettivo dovrebbe essere una regolazione CO₂ flessibile e realistica che centri i target climatici senza compromettere innovazione e valore industriale”, ha scritto Merz a Ursula von der Leyen, riassumendo la filosofia del fronte contrario: equilibrio tra ambiente ed economia.
Nina Celli, 5 dicembre 2025
Lo stop darà slancio all’innovazione e alla leadership industriale europea nell’era elettrica
I sostenitori ritengono che lo shock regolatorio del 2035 possa innescare un circolo virtuoso di innovazione, rafforzando la competitività di lungo termine dell’economia europea. L’automotive sta vivendo una trasformazione epocale verso l’elettromobilità e l’Europa, con il bando, intende porsi all’avanguardia di questo cambiamento anziché subirlo. Contrariamente ai timori di declino, il fronte pro-ban vede nell’auto elettrica un’opportunità per creare nuove filiere produttive (batterie, elettronica di potenza, software) e per riconvertire il tessuto industriale con prodotti ad alto valore aggiunto. Un rapporto di Transport & Environment rileva che misure decise per l’elettrificazione possono generare centinaia di migliaia di posti di lavoro green in Europa, specialmente se supportate da politiche per localizzare la produzione di batterie e componenti. Nel dibattito europeo è emerso ad esempio il tema delle flotte aziendali elettriche: imporre che il 75% delle auto di grandi aziende sia elettrico (con contenuto locale) entro il 2030 potrebbe portare 1,2 milioni di EV prodotte in più in UE, stimola T&E. Questi numeri suggeriscono che creare un mercato interno forte dell’auto elettrica è cruciale per attirare investimenti in nuovi stabilimenti e tecnologie. “Europa dovrebbe continuare a svolgere un ruolo di leader mondiale nel settore automobilistico” ha affermato il vicepresidente Dombrovskis, indicando che, proprio perché la concorrenza globale cambia (Cina in primis), l’UE deve focalizzarsi su condizioni che permettano alle aziende nostrane di prosperare nella nuova mobilità. I favorevoli sottolineano che le case auto europee hanno già intrapreso la via elettrica: molte hanno annunciato volontariamente lo stop a motori termici ben prima del 2035 (es. alcune marche puntano al 2030). Volkswagen, ad esempio, pur supportando la considerazione degli e-fuel, ha confermato di mantenere la “leadership EV” come pilastro strategico. Ciò denota come l’industria stessa veda il proprio futuro nell’elettrico e consideri i combustibili sintetici più un’opzione di nicchia o transitoria. Del resto, i fondi UE e nazionali stanno affluendo massicciamente: gigafactory di batterie in Germania, Francia, Italia e altri Paesi sono in cantiere grazie anche al richiamo di normative che proiettano un mercato solido per le EV. Abbandonare ora l’obiettivo 2035 rischierebbe di minare la fiducia degli investitori e deviare capitali verso altre regioni più determinate (Cina, USA). “Chiediamo solo stabilità regolatoria: siamo pronti”, ha dichiarato Carlos Tavares, CEO di Stellantis, chiarendo che la sua azienda non chiede di cancellare il regolamento ma di avere un quadro chiaro e coerente. Questa affermazione – proveniente da uno dei manager più critici sui costi del Green Deal – è emblematica: persino i grandi gruppi ormai pianificano sull’elettrico e temono più l’incertezza normativa che la transizione in sé.
Ulteriore punto a favore è che fissare uno standard unico (zero emissioni allo scarico) evita la frammentazione del mercato europeo in normative differenti e libera la creatività ingegneristica su un obiettivo comune. La competizione si sposta su chi saprà produrre EV migliori, più economiche e sostenibili, invece di disperdere risorse in troppe strade parallele. Questo è coerente col principio – caro agli ambientalisti – che serva concentrare gli sforzi: sviluppare e-fuel “puliti” per alimentare 300 milioni di auto sarebbe proibitivo e inefficiente, mentre è sensato destinarli ad aviazione o marina (dove l’elettrico è meno praticabile). Sulle automobili, invece, puntare decisi sull’elettrico consente di ottenere economie di scala rapide, generando un volano tecnologico-industriale. L’UE può inoltre contare su un know-how consolidato: aziende come Enel, ABB, Schneider ecc. eccellono nell’infrastruttura di ricarica, e la ricerca europea in ambito batterie (ad esempio, nuovi chimismi al litio-ferro-fosfato o solid state) è avanzata. Rafforzare la domanda interna di veicoli zero emission stimolerà anche questi settori collaterali, creando un ecosistema favorevole all’innovazione. I pro-ban fanno notare come l’alternativa – cioè, ritardare la transizione – rischierebbe di cristallizzare un vantaggio competitivo cinese. Oggi la Cina domina nella produzione di batterie e componenti EV grazie alla sua scala di mercato, ma l’Europa ha asset unici (capacità ingegneristiche, brand auto di qualità) che le permettono di recuperare terreno se spinge con decisione. Se invece l’UE rallentasse, i costruttori europei rischierebbero di restare indietro anche sul fronte elettrico, venendo soppiantati in futuro da importazioni asiatiche più economiche. Non a caso, nel 2023 la Commissione ha aperto un’indagine anti-sussidi sulle auto elettriche cinesi, ma a lungo termine l’unica risposta è competere sull’innovazione, non proteggere tecnologie vecchie. “Mentre giochiamo una partita perdente contro una tecnologia su cui investono tutte le economie mondiali… l’automotive nazionale registra -35% di produzione quest’anno” denunciavano in una lettera congiunta Legambiente, Greenpeace e altri, riferendosi al calo produttivo in Italia e indicando come non affrontare la transizione peggiori la crisi invece di evitarla. In sostanza, i pro sostengono che il vero rischio per l’industria sta nell’ostinarsi sul passato: ogni anno di ritardo nell’elettrificazione è un mercato ceduto ai rivali e un’occasione di lavoro persa in Europa. Al contrario, abbracciare con convinzione la rivoluzione elettrica – pur non indolore – porrà le basi della leadership industriale europea nella mobilità del XXI secolo.
Nina Celli, 5 dicembre 2025
Neutralità tecnologica: rischio di un “monopolio elettrico” imposto per legge
Per i critici del divieto 2035, uno degli aspetti più problematici è la rottura del principio di neutralità tecnologica: invece di fissare un obiettivo (ridurre a zero le emissioni) e lasciare al mercato il compito di trovare le soluzioni migliori, l’UE finirebbe per imporre de facto un’unica tecnologia, l’auto elettrica a batteria. L’obiezione non riguarda il valore dell’elettrico in sé, ma il fatto che la normativa preveda, dal 2035, solo veicoli “a emissioni zero allo scarico”, escludendo o relegando ai margini opzioni potenzialmente utili come motori a combustione alimentati con carburanti climaticamente neutri (e-fuel, biocarburanti avanzati), ibridi plug-in di nuova generazione o altre soluzioni ancora in fase di sviluppo. In Germania, il cancelliere Friedrich Merz ha chiesto esplicitamente alla Commissione di rinunciare a un “hard cut-off” dei motori termici nel 2035, proponendo di mantenere spazio regolatorio per plug-in e motori molto efficienti, in linea con le richieste dell’industria nazionale di una transizione più flessibile e “realistica”.
L’argomento della neutralità tecnologica è centrale anche nel dibattito italiano. Esponenti politici come il senatore Paolo Arrigoni hanno contestato il divieto proprio perché, a loro avviso, “viola la neutralità tecnologica”, ignorando biocarburanti già disponibili e nuovi carburanti non fossili che potrebbero ridurre le emissioni mantenendo viva la filiera dei motori endotermici. Analoghe critiche vengono da alcuni costruttori: il CEO di BMW Oliver Zipse ha definito il bando 2035 un “grave errore”, sostenendo che la regolazione UE guarda solo allo scarico e trascura le emissioni di ciclo di vita (produzione di batterie, generazione elettrica), chiedendo che vengano presi in considerazione anche carburanti climaticamente neutri oltre quella data. Da questa prospettiva, la scelta di vincolare l’intero mercato a un’unica architettura tecnologica rischierebbe di soffocare l’innovazione concorrente: se in futuro emergessero carburanti sintetici davvero sostenibili, o motori termici ultra efficienti combinati con combustibili rinnovabili, il quadro regolatorio attuale renderebbe molto difficile la loro diffusione su larga scala, a prescindere dal loro effettivo impatto ambientale.
I critici sottolineano inoltre che l’UE ha già dovuto introdurre deroghe ex post sotto pressione politica: nel 2023, ad esempio, la normativa è stata sbloccata solo dopo l’accordo con la Germania sugli e-fuel, consentendo la vendita dopo il 2035 di auto termiche alimentate esclusivamente da carburanti sintetici. Allo stesso tempo, la richiesta italiana di riconoscere i biocarburanti è rimasta esclusa, creando un regime di eccezioni considerato incoerente e frutto più di equilibri politici che di una valutazione comparativa delle tecnologie. Alcuni osservatori temono che la stratificazione di deroghe negoziate caso per caso produca un sistema poco trasparente, in cui solo gli attori con maggiore peso politico riescono a far valere la propria tecnologia preferita. In quest’ottica, i detrattori propongono un modello alternativo: fissare un obiettivo di riduzione delle emissioni molto ambizioso (anche pari al 100%) sul ciclo di vita del veicolo, lasciando però aperta la competizione fra soluzioni (EV, e-fuel, biofuel sostenibili, idrogeno, ibridi di nuova generazione) purché rispettino parametri stringenti. Questo preserva la possibilità di combinare più traiettorie tecnologiche, mitigando i rischi di puntare tutto su una sola carta.
Chi critica il bando 2035 osserva che la neutralità tecnologica non è solo un principio astratto, ma ha effetti concreti su investimenti e occupazione. In Italia, ad esempio, una parte consistente della filiera – dagli impianti di raffinazione ai produttori di componenti per motori – sta investendo su biocarburanti, carburanti a basso tenore di carbonio e soluzioni ibride. Se il quadro regolatorio esclude a priori queste opzioni, molti di questi investimenti rischiano di trasformarsi in asset incagliati, con ricadute su posti di lavoro e competitività. Da qui l’insistenza di governi come quello italiano nel chiedere alla Commissione di “aprire a tutte le tecnologie” nella revisione, inclusi biocarburanti avanzati ed ibridi plug-in. L’obiettivo dichiarato non è fermare la decarbonizzazione, ma evitare – secondo questa lettura – che la transizione venga ridotta a un’unica soluzione obbligata, rischiando di rivelarsi meno resiliente, meno innovativa e più costosa nel lungo periodo.
Nina Celli, 5 dicembre 2025
Niente “scappatoie”: i carburanti alternativi non sostituiscono l’elettrico
Un punto fermo dei sostenitori del bando è la critica alle soluzioni alternative (bio- e e-carburanti, motori ibridi prolungati) che i contrari propongono di includere. Tali opzioni vengono ritenute inefficienti, costose o marginali rispetto all’obiettivo della decarbonizzazione dei trasporti. Ad esempio, i cosiddetti e-fuels (combustibili sintetici prodotti con elettricità rinnovabile e CO₂ catturata) vengono spesso presentati come panacea per far sopravvivere i motori termici senza emissioni. Ma secondo Transport & Environment sono un vero e proprio “cavallo di Troia” dell’industria petrolifera e motoristica per ritardare la transizione elettrica. Un’analisi di T&E basata su dati della lobby oil&gas mostrerebbe che nel 2035 gli e-fuels disponibili basterebbero a far marciare solo il 2% circa del parco auto europeo. In numeri, solo 5 milioni di veicoli (su 287 milioni previsti) potrebbero essere alimentati al 100% con sintetici nel 2035. Ciò smentisce la narrativa secondo cui lasciare aperta la porta agli e-fuels aiuterebbe a decarbonizzare milioni di auto esistenti: la produzione sarebbe insufficiente e per giunta inizialmente legata a CO₂ di recupero industriale e non da aria (dunque con dubbia neutralità). Greenpeace rincara: promuovere gli e-fuels per auto è “costoso e inefficiente”, oltre a “tenere in vita la dipendenza dal petrolio”. Infatti gli e-fuels richiedono enormi quantità di elettricità rinnovabile per pochi litri di carburante – risorse che potrebbero decarbonizzare più efficacemente altri settori critici (aerei, navi). Anche bruciando e-fuel, inoltre, i motori termici continuerebbero a emettere inquinanti locali: test hanno mostrato che i NOx di un’auto a e-fuel sono analoghi a quelli con benzina tradizionale. Per di più, secondo studi citati da Greenpeace, nel 2030 un’auto elettrica avrà un’impronta carbonica -53% inferiore su tutto il ciclo vita rispetto a una alimentata a carburanti sintetici. In pratica, anche nell’ipotesi (remota) di abbondanti e-fuel davvero “verdi”, resterebbero un second best rispetto all’elettrico in termini climatici. Lo stesso vale per i biocarburanti: l’Italia li promuove come soluzione, ma gli ambientalisti obiettano che i biofuels avanzati (da rifiuti, alghe ecc.) saranno disponibili in quantità limitate e quelli tradizionali confliggono con la produzione alimentare o hanno impatti ambientali collaterali (deforestazione per olio di palma ecc.). Non a caso l’accordo UE 2023 ha accolto la posizione tedesca sugli e-fuels ma ha “tagliato fuori l’Italia” escludendo i biofuel, segno che a livello europeo c’è scetticismo sulla loro effettiva sostenibilità.
I pro-ban sottolineano inoltre che inserire troppe deroghe e flessibilità finirebbe per minare la chiarezza della politica industriale, elemento invece cruciale. La ratio del regolamento era dare un segnale netto di cambio di paradigma: se ora si cominciano ad aggiungere eccezioni (ibridi ammessi oltre il 2035, motori a combustione con e-fuel considerati “zero emissioni” legalmente ecc.), si rischia un “effetto spiazzamento”. Investitori e costruttori potrebbero confondere i segnali e rallentare gli investimenti in elettrico sperando di poter far sopravvivere ancora le vecchie tecnologie grazie alle scappatoie normative. Questa ambiguità è vista come pericolosa: “resistete alle richieste dell’industria di inserire i biofuel”, ha esortato una coalizione di ONG alla Commissione, perché ciò vanificherebbe gli sforzi di elettrificazione. Le organizzazioni pro-transizione evidenziano che le case auto, lungi dall’aver bisogno di “vie di fuga”, hanno già gli strumenti per decarbonizzare: dall’elettrico a batteria all’idrogeno (per veicoli pesanti). Ogni euro speso per rendere carbon neutral i carburanti liquidi è, secondo loro, un euro tolto ad altre voci. “Gli e-fuels nelle auto risucchierebbero energia rinnovabile necessaria altrove”, avverte T&E, ricordando che l’Europa dovrà gestire con oculatezza le proprie risorse verdi. Un’altra critica riguarda i costi per gli utenti: si stima che utilizzare un’auto a e-fuel costerà al guidatore medio ~10.000 € in più in 5 anni rispetto a usare un’elettrica pura, dato il prezzo elevato previsto per i sintetici. Appare dunque improbabile – sostengono i pro – che tali carburanti possano davvero aiutare i consumatori, se non in segmenti di lusso disposti a pagarli a caro prezzo. In sintesi, per i fautori il messaggio è chiaro: puntare su e-fuel e ibridi di fatto ritarderebbe l’adozione delle soluzioni più pulite e accessibili a regime (EV e mobilità sostenibile), mantenendo alti i costi e i rischi di non centrare i target. “Chi crede di salvare occupazione con tecnologie già oggi superate chiude deliberatamente gli occhi di fronte alla realtà”, ha dichiarato il rappresentante di T&E in Germania criticando la linea di Berlino. L’auspicio dei pro è che il Parlamento UE tenga duro e “respinga i tentativi di annacquare il bando” mantenendo l’orizzonte finale di totale eliminazione dei motori endotermici. Solo così l’industria sarà costretta a innovare davvero e l’Europa potrà cogliere tutti i benefici (ambientali ed economici) di una transizione ben gestita e senza false soluzioni.
Nina Celli, 5 dicembre 2025
Costi, infrastrutture e rischio di “transizione per pochi”
Un secondo filone di critiche al bando 2035 insiste sugli effetti distributivi e sulla concreta fattibilità economica e infrastrutturale della transizione. In questa prospettiva, il timore è che il divieto finisca per creare una “transizione per pochi”, in cui solo chi dispone di reddito sufficiente e vive in aree ben servite possa permettersi un’auto nuova “a zero emissioni”, mentre una larga parte della popolazione resterebbe esclusa o costretta a mantenere a lungo veicoli vecchi e inquinanti. In paesi “latecomer” come l’Italia, la fotografia del mercato è eloquente: nel 2022 le auto elettriche pure rappresentavano appena una piccola quota delle immatricolazioni, con una domanda molto inferiore alla media europea e un parco circolante tra i più anziani del continente. Le colonnine di ricarica sono distribuite in modo disomogeneo, con forti concentrazioni in alcune regioni e ampie zone scoperta in altre; a ciò si aggiungono vincoli oggettivi per la ricarica domestica (condomini, aree rurali, reti locali poco aggiornate). In questo contesto, imporre che dopo il 2035 si possano immatricolare solo veicoli “zero emission allo scarico” viene percepito da una parte dell’opinione pubblica come una misura poco realistica rispetto allo stato di molti territori, come ha osservato il ministro italiano Urso criticando lo scarto tra tempi UE e capacità di adattamento nazionale.
Sul fronte dei costi, i detrattori richiamano le analisi di manager industriali che parlano di “tensione insostenibile” per il settore auto. Il CEO di Stellantis Carlos Tavares ha stimato che le attuali regole europee sulle emissioni – in cui si inserisce anche il bando 2035 – comportano un aumento di circa 40% dei costi per l’industria automobilistica, proprio mentre i consumatori si mostrano riluttanti ad acquistare EV costose. Se i listini restano significativamente più alti rispetto alle auto a combustione, il rischio è che una quota crescente di famiglie non possa permettersi il cambio auto, con due conseguenze: un parco circolante che invecchia (perché si rinvia la sostituzione) e una mobilità sempre più polarizzata fra chi può accedere a veicoli moderni e chi rimane legato ad auto vecchie, meno sicure e più inquinanti. In Francia, il ricordo della protesta dei gilet gialli nata dal caro carburanti è spesso evocato come monito politico: misure ambientali percepite come ingiuste o squilibrate socialmente possono generare forti tensioni. Alcuni osservatori temono che un passaggio rapido all’elettrico, se non accompagnato da adeguate politiche redistributive (bonus mirati, trasporto pubblico potenziato, supporto alle aree interne), possa alimentare nuove ondate di protesta.
I governanti critici, come la premier Giorgia Meloni, hanno definito il bando 2035 “autodistruttivo” proprio perché temono un impatto eccessivo su famiglie e industrie, in un contesto di salari stagnanti e forti differenze territoriali in Europa. L’argomento non è che la mobilità elettrica non debba crescere, ma che non può essere imposta a tappe forzate senza aver prima creato le condizioni minime: infrastrutture diffuse, prezzi dei veicoli accessibili, reti elettriche adeguate. In questo senso, alcuni critici guardano al modello cinese o statunitense, dove la diffusione degli EV è stata sostenuta soprattutto da incentivi economici e industriali, senza un bando formale entro una data così ravvicinata. Parallelamente, parte del mondo produttivo italiano e tedesco paventa che la combinazione di costi più alti, carenza di infrastrutture e concorrenza di produttori extra-UE (spesso sostenuti da politiche industriali aggressive) possa tradursi in una perdita di competitività duratura per l’industria europea.
Infine, i critici osservano che una transizione percepita come socialmente ingiusta rischia di essere politicamente fragile. Se gli elettori associano le politiche climatiche a rincari, divieti e perdita di posti di lavoro, potrebbero spostarsi verso forze politiche apertamente ostili all’azione per il clima, con il paradosso di indebolire la stessa agenda ambientale che il bando 2035 vorrebbe rafforzare. Per questo, molti oppositori non chiedono di abbandonare gli obiettivi di decarbonizzazione, ma propongono di rimodulare i tempi e gli strumenti: spostare la scadenza, introdurre percorsi differenziati fra Paesi e regioni, privilegiare incentivi e investimenti su reti e trasporto pubblico prima dei divieti, mantenere una quota di flessibilità tecnologica (ad esempio per le ibride plug-in) per evitare che il passaggio avvenga in modo troppo brusco. L’alternativa, nella loro lettura, è una transizione “di carta”, approvata nei regolamenti ma poco radicata nella società, destinata a essere rimessa in discussione a ogni cambio di ciclo politico.
Nina Celli, 5 dicembre 2025