Il celibato sacerdotale nella tradizione della Chiesa deriva da un dono libero di sé e non da un'imposizione

Un concilio spagnolo sancisce il celibato

Agli inizi del IV secolo si era tenuto ad Elvira, in Spagna, un Concilio nel quale espressamente (canone 33) si vietavano i rapporti sessuali tra i presbiteri e le loro mogli, come riportato nell’articolo Sviluppo della continenza nella Chiesa latina in “Pagine Cattoliche”, consultato il 12 aprile 2015: “Si è d'accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell'altare, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale”.

A proposito di questa norma, espressa in modo molto rigoroso, il Papa Pio XI rilevava nella sua enciclica Ad Catholici Sacerdotii del 1935 che “la legge del celibato ecclesiastico, la cui prima traccia scritta (la quale evidentemente suppone una prassi più antica) si riscontra in un canone del Concilio di Elvira all'inizio del secolo IV, quando ancora fremeva la persecuzione, non fa che dar forza di obbligazione a una certa, diremmo quasi, morale esigenza, che sgorga dal Vangelo e dalla predicazione apostolica. L'alta stima in cui il Divino Maestro mostrò di avere la castità, esaltandola come cosa superiore alla comune capacità, il saperlo ‘fiore di Madre Vergine’ e fin dall'infanzia allevato nella famiglia verginale di Maria e Giuseppe, il vederlo prediligere le anime pure, come i due Giovanni, il Battista e l'Evangelista; l'udire il grande Apostolo Paolo, fedele interprete della legge evangelica e del pensiero di Cristo, predicare i pregi inestimabili della verginità, specialmente in ordine ad un più assiduo servizio di Dio: 'Chi è senza moglie, ha sollecitudine delle cose del Signore, del compiacere a Dio'; tutto questo doveva quasi necessariamente far sì che i sacerdoti della Nuova Alleanza sentissero il fascino celestiale di questa eletta virtù, cercassero di essere nel numero di quelli 'ai quali è stato concesso di comprendere questa parola', e se ne imponessero spontaneamente l'osservanza, sancita poi ben presto da gravissima legge ecclesiastica in tutta la Chiesa Latina: affinché come asseriva alla fine del secolo IV il Concilio Cartaginese II 'anche noi osserviamo quello che gli Apostoli hanno insegnato e la stessa antichità ha osservato'”.

Pio XI notava dunque come la codificazione di una norma così ben definita dovesse per forza avere un “retroterra” non scritto in cui però la prassi si orientava verso una precisa direzione.

 

Il sacerdote è sposo della Chiesa

A proposito del concilio cartaginese citato nell'enciclica papale, emerge, dallo studio La cultura della Verginità e più tardi del Celibato nella Chiesa milanese da S. Ambrogio a S. Arialdo, condotto da don Lauro Consonni, parroco a Laorca e appassionato di storia e archivistica, che la vocazione sacerdotale, fiorita dopo le nozze, implica una rinuncia agli atti peculiari del matrimonio e che tutto può essere realizzato con l'assenso della moglie dell'aspirante presbitero. Il punto di partenza è, comunque, la monogamia: il mantenimento della fedeltà coniugale ad una sola donna, esplicitamente richiamato da san Paolo, il quale si rifà evidentemente agli insegnamenti di Gesù, è la condizione indispensabile per poter maturare quella capacità di servire la Chiesa con cuore indiviso.

“Diceva il Concilio di Cartagine del 390: conviene che quelli che sono al servizio dei divini sacramenti siano perfettamente continenti 'affinché ciò che hanno insegnato gli apostoli e ha mantenuto l'antichità stessa, lo osserviamo anche noi'. Il Concilio aveva poi votato all'unanimità il decreto stesso sull'obbligo della continenza: 'Piace a tutti che il vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dall'unione coniugale con le loro spose affinché venga custodita la purezza perfetta di coloro che servono all'altare'. Anche se non viene citato il testo di san Paolo, il riferimento è implicito, visto che menziona, come nelle lettere pastorali, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. E nello stesso periodo Papa Siricio, presentando le norme per il Concilio di Roma del 386, cita espressamente il testo di san Paolo 'unius uxoris vir' [un uomo di una sola donna, NdR]. Lo stesso Tertulliano all'inizio del terzo secolo aveva ricordato (‘Ad uxorem’) che la monogamia non è solo una disciplina ecclesiastica, ma anche un precetto dell'Apostolo. Risale quindi al tempo apostolico. E poi (‘De exhortatione castitatis’) aveva insistito sul fatto che nella Chiesa parecchi credenti non sono sposati, vivono nella continenza e diversi di loro appartengono ad Ordini ecclesiastici: costoro 'hanno preferito sposare Dio'. Ma quale legame c'è tra il matrimonio monogamico e la continenza? Tertulliano non lo dice, ma porta l'esempio di Cristo che, secondo la carne, non era sposato, viveva da celibe (non era quindi 'un uomo di una sola donna'), però nello spirito 'aveva una sola sposa, la Chiesa'. E questa dottrina delle nozze spirituali di Cristo con la Chiesa era comune nel cristianesimo antico. Analogamente sant'Agostino, nel ‘De continentia’, dice: 'L'apostolo ci invita a osservare per così dire tre coppie: Cristo e la Chiesa, il marito e la moglie, lo spirito e la carne'. Il suggerimento che ci fornisce questo testo per l'interpretazione della formula 'unius uxoris vir' applicata al ministro (sposato) del sacramento è che egli, come ministro, non rappresenta soltanto la seconda coppia (marito e moglie) ma anche la prima: egli impersona Cristo nel suo rapporto con la Chiesa. Abbiamo qui il fondamento della dottrina che diverrà classica: 'Sacerdos alter Christus'. Anche numerosi altri testi penitenziali del Medioevo dicono che quando un uomo sposato, d'accordo con la moglie, vuole farsi prete, deve vivere nella continenza, altrimenti commette un adulterio, dato che il, sacramento ricevuto lo ha reso marito di un'altra sposa, che è la Chiesa”.

I preti sposati fino al Medioevo

Scrive il professore Francesco Quaranta (Preti sposati nel Medioevo, Claudiana, 2000, p. 7) che “ancora nel VIII secolo il prete lucchese Romualdo scrivendo al suo vescovo, usava queste familiari parole: ‘mia moglie, la presbytera Ratperga’. Con il loro tono semplice e naturale esse ci rivelano la presenza riconosciuta e accettata del clero sposato in Italia, delle mogli dei sacerdoti, dei loro figli legittimi”. In questo saggio Quaranta, esperto di lingua copta e siriaca, ripropone i testi di cinque autori medievali che commentano la scelta della Chiesa di estendere l'obbligo del celibato a tutti i chierici. “Il celibato degli ecclesiastici nella seconda metà dell'undicesimo secolo era diventato una bandiera, un ideale che qualificava una nuova concezione della Chiesa. Dal 1048, anno della nomina a papa del lorenese Brunone di Toul (Leone IX), era iniziata quella che verrà chiamata la riforma gregoriana. Il programma dei riformatori canossiani, portato al successo in seguito da Papa Gregorio VII, aveva tra i punti qualificanti la creazione di un clero celibatario che avrebbe dovuto mettere fine all'aperta e permanente violazione della sostanza e dello spirito delle leggi ecclesiastiche latine da parte dei chierici ufficialmente sposati e dei concubinari. Il clero con famiglia venne considerato immorale e bollato come nicolaita, ma soprattutto fu sentito come un pericolo per la sopravvivenza delle sostanze della Chiesa e per la natura di casta non ereditaria della sua gerarchia. In Occidente infatti, le proprietà, i feudi ecclesiastici e le stesse chiese erano passati sotto il controllo dei laici sotto forma di benefici. Il fenomeno era iniziato verso il VII secolo e si era ampliato e universalizzato col diffondersi del feudalesimo. Il clero e le congregazioni religiose in quell'epoca di disordine e pericolo avevano compiuto un atto di dedizione al potente del luogo in cambio della sua protezione. In questo modo le proprietà delle chiese, che già avevano la tendenza a separarsi dall'amministrazione del vescovo, furono di fatto privatizzate: il laico finanziatore della singola chiesa e i suoi eredi divennero i titolari della proprietà, cioè del beneficio, che amministravano a loro piacimento e di cui dividevano i proventi: terreni, censi, offerte dei fedeli, con i sacerdoti da loro nominati. Il matrimonio del clero fu visto perciò come il più grave pericolo per l'integrità del patrimonio ecclesiastico, secondo in ordine d'importanza solo all'ingerenza laica: i sacerdoti con famiglia non solo tendevano inevitabilmente a essere conniventi con il sistema delle investiture laiche, perché ne ricevevano in cambio la sicurezza di parte dei proventi e della successione nella carica di un loro figlio, ma anche sarebbero stati i veri e diretti beneficiari di una eventuale scomparsa del patronato locale, essendo il bene ecclesiastico ormai separato irreversibilmente dal patrimonio vescovile” (Preti sposati...,cit., pp. 8-9).

 

Il concubinato

Una soluzione di compromesso venne escogitata da coloro che volevano salvaguardare sia la famiglia sia la carriera ecclesiastica: il concubinato. “Questo tipo di rapporto era una realtà universalmente diffusa e accettata nell'Alto Medioevo. Esso consisteva in una unione privata tra l'uomo e la donna riconosciuta dalle leggi, le quali però impedivano ai figli nati da questo rapporto di ereditare. Anche la Chiesa non escludeva dai sacramenti i concubini, purché basassero il loro legame sulla fedeltà e sulla indissolubilità. Per questo i chierici si volsero in massa verso questo legame che lo Stato proteggeva e la Chiesa non perseguiva. Il concubinato permetteva anche l'inosservanza dell'obbligo della castità, dato che esso aveva formalmente come unico riferimento le coppie clericali legittimamente sposate” (Preti sposati..., cit., p. 10). A metà del Medioevo, nel 1059, sotto il pontificato di Niccolò II, a Roma si era celebrato un sinodo i cui decreti vietavano di ascoltare “la messa di un prete del quale si sappia con certezza che ha una concubina o una donna convivente. […] A ogni sacerdote, diacono o suddiacono che, in violazione del decreto sulla castità dei chierici emanato dal nostro predecessore Leone [Leone I Magno] di beata memoria, abbia sposato una concubina, o avendola sposata prima dell'ordinazione, non l'ha lasciata noi […] proibiamo e intimiamo di non cantare messa né di leggere il vangelo o l'epistola […]” (Preti sposati..., cit., p. 15).

 

Il caso di Ulrico di Imola

Questi decreti vennero recapitati a tutti i vescovi che non sempre si trovarono d'accordo con le decisioni prese da quell'assemblea. È questo il caso del vescovo Ulrico di Imola che, pur non essendo stato invitato al Sinodo, si vede recapitare i decreti vincolanti e decide di scrivere una lettera al papa affermando di non condivide le decisioni che sono state prese a Roma. Scrive il vescovo Ulrico: “Il Signore ha certamente istituito il matrimonio dei sacerdoti nella legge ebraica; che in seguito l'abbia loro proibito non si legge da nessuna parte […]. Infatti quel detto apostolico: ‘Ogni uomo abbia sua moglie’ non ammette alcuna eccezione, tranne quella di chi fa voto di vera continenza e di chi decide nel Signore di permanere in verginità. […] Tutti coloro che hanno rinnegato il voto di continenza fatto a voce o per iscritto siano costretti a rispettare doverosamente il voto o siano deposti con legittima autorità da ogni carica” (Preti sposati..., cit., p. 20). Dalle parole accorate del vescovo si evince la distinzione che egli opera tra coloro che hanno scelto il celibato volontariamente, i quali, nel caso dovessero venire meno al voto fatto, giustamente devono essere deposti dal loro ufficio, e coloro che invece non hanno operato quella scelta e legittimamente esercitano il ministero sacerdotale. Il vescovo – secondo Quaranta – sostiene inoltre che “ogni costrizione autoritaria e violenta in ambito spirituale doveva essere rifiutata come assurda: chi avesse voluto diffondere un ideale cristiano avrebbe dovuto convincere la volontà altrui, avrebbe dovuto sedurre le anime con la bellezza spirituale della proposta” (Preti sposati..., cit., p. 17).

 

 

Disordini legati all'obbligo del celibato

Non sempre la questione venne affrontata in modo pacifico. Nell’articolo Noi sacerdoti, celibi come Cristo, pubblicato sul quotidiano “Il Foglio”, nel luglio 2014, il cardinale Walter Brandmüller, storico della Chiesa, nota come in alcune regioni d'Europa “si assistette a una spaccatura così netta – soprattutto nella Chiesa tedesca e francese – da portare i prelati tedeschi contrari al celibato a cacciare con la forza dalla sua diocesi il vescovo Altmann di Passau. In Francia, gli emissari del Papa incaricati di insistere sulla disciplina del celibato venivano minacciati di morte, e il santo abate Walter di Pontoise venne picchiato, durante un sinodo tenutosi a Parigi, dai vescovi contrari al celibato e sbattuto in prigione”.

Nonostante l'introduzione di leggi sul celibato, commenta il professor Pier Giorgio Odifreddi, matematico e saggista: “non per questo i preti cessarono di essere mariti, amanti e padri” (Perché non possiamo essere cristiani. E meno che mai cattolici, Longanesi, 2007, p. 195).