Solo sapendo che una macchina “sente di pensare” si può asserire che essa pensa.

Il test di Turing è un test “immune” ad una obiezione che tiri in ballo l’autocoscienza come caratteristica fondamentale che si accompagna all’attività del pensiero: infatti, si potrebbe certamente sostenere che è necessario “sentirsi pensare” per dimostrare di essere in grado di pensare, ma è anche vero che una simile posizione, se portata alle estreme conseguenze, conduce al solipsismo. Pertanto, l’unico modo per sapere se un soggetto, che sia macchina o uomo, è capace di pensare, sarebbe essere quell’uomo o quella macchina.

Le conseguenze di una posizione solipsista sono due:

- non è possibile sapere se gli altri esseri sono dotati di facoltà intellettive, poiché se un soggetto X riuscisse a sentire gli stati interni di Y così come sono percepiti da Y stesso, allora la differenza tra “io e altro” crollerebbe;

- l’unico modo per mostrare di avere degli stati mentali sarebbe quello di descrivere queste sensazioni al mondo, ma per via dell’impossibilità di accedere all’esperienza cosciente altrui, nessuno sarebbe giustificato nel ritenerle vere.

Secondo Turing, il punto di vista solipsistico è forse il migliore a cui attenersi sul piano logico, tuttavia, da un punto di vista pratico, esso renderebbe difficile la comunicazione delle idee, poiché si prospetterebbe una situazione del tipo

A crede: “A pensa, ma B no”, mentre B crede: “B pensa, ma A no”.

Ovviamente, questa sorta di impasse è superata dalle regole convenzionali secondo le quali anche gli altri sono in grado di pensare.

Inoltre, Turing ritiene che se qualcuno non volesse – legittimamente peraltro – accettare il punto di vista solipsistico ci sono buone ragioni per supporre ch’egli sia comunque disposto ad accettare una variante del gioco dell’imitazione con solo due giocatori: il risultato di questa variante sarebbe nulla più che un esame orale su un dato argomento, dove l’esaminatore E cerca di scoprire se l’interrogato I ha davvero compreso ciò di cui sta parlando oppure se l’ha solo imparato a memoria. Si consideri il seguente dialogo [l’esempio è sempre di Turing (1950)]:

“E: Nel primo verso del suo sonetto che, dice ‘Ti paragonerò ad a un giorno d’estate’, ‘una giornata di primavera’ non andrebbe bene lo stesso?

I: Non quadrerebbe metricamente.

E: E ‘una giornata d’inverno’? Metricamente andrebbe bene.

I: Sì, ma nessuno vorrebbe essere paragonato ad un giorno d’inverno.

E: Lei direbbe che Mr Pickwick le ricorda Natale?

I: In un certo senso.

E: Eppure natale è un giorno d’inverno, e non credo che il paragone dispiacerebbe a Mr. Pickwick.

I: Non credo che lei parli seriamente. Per ‘un giorno d’inverno’ si intende un tipico giorno d’invero, piuttosto che un giorno speciale come Natale”.

Ora se I fosse una macchina che scrive sonetti e che riesce a dare risposte così pertinenti sui sonetti che scrive sarebbe davvero difficile dire che essa non “li ha capiti” ma ha eseguito semplicemente operazioni meccaniche perché, a questo punto, si potrebbe muovere la stessa obiezione se I fosse un essere umano. Il nocciolo di questo argomento è che, se si vogliono evitare tutti i problemi legati al solipsismo, si deve essere disposti ad accettare che chiunque – tanto gli uomini quanto le macchine – sia in grado di fornire un resoconto su una sua esperienza, credenza, emozione e pensiero, è capace di avere credenze provare emozioni ed è in grado di pensare.

La cosiddetta “obiezione dell’autocoscienza” al test di Turing, cerca di dimostrare che, anche nel caso in cui una macchina riuscisse a vincere nel gioco dell’imitazione, questo non proverebbe affatto che la macchina sia in grado di pesare “nello stesso modo in cui gli esseri umani pensano”. Alla base di questa critica vi è un’intuizione del prof. Geoffrey Jefferson, neurologo e pioniere della neurochirurgia: ”Fino a quando una macchina non potrà scrivere un sonetto o comporre un concerto in base a pensieri ed emozioni provate, e non per la giustapposizione casuale di simboli, non potremmo essere d’accordo sul fatto che una macchina eguagli il cervello: cioè, che non solo scriva, ma sappia di aver scritto” (Geoffrey Jefferson, The mind of Mechanical Man, in “British Medical Journal” , Vol. 1, 25 giugno, 1949). Analogamente, si potrebbe dire che una macchina capace di esprimere frasi di senso compiuto, magari per mezzo di un sintetizzatore vocale, in realtà non “parla nello stesso modo in cui parlano gli esseri umani”, dato che gli esseri umani sentono di stare parlando e comprendono ciò di cui stanno parlando. Pertanto, sulla scorta di quanto afferma Jefferson, si può asserire che una macchina che non può sapere di star pensando (o di essere un essere pensante) non può in alcun modo pensare.

Le conseguenze dell’obiezione dell’autocoscienza sono fondamentalmente tre:

- il solipsismo, ovvero l’unico modo affinché si possa determinare che una macchina pensa, è essere quella macchina e sentire se stessi pensare;

- affinché si abbia una mente è necessaria la presenza di un certo tipo di autocoscienza;

- infine, che considerare il pensiero come una funzione separata da tutti gli altri stati mentali potrebbe essere un errore.

Matteo D'Angelo, 17 luglio 2016