Continuare a comprare armamenti dagli Stati Uniti significa dirottare immense risorse finanziarie europee verso l’estero, penalizzando la crescita della nostra industria bellica e tecnologica. Per ogni sistema d’arma americano acquistato c’è un corrispondente sistema europeo non sviluppato o non prodotto, con perdita di competenze, posti di lavoro qualificati e autonomia industriale. Secondo stime riportate da “Il Mattinale Europeo”, gli Stati membri europei spendono ogni anno circa 50 miliardi di euro per acquistare armamenti e attrezzature militari dagli USA. È come se un intero Fondo europeo per la difesa (EDF) venisse trasferito annualmente oltreoceano, visto che l’EDF vero dispone di appena 8 miliardi in 7 anni. Non solo: il SIPRI calcola che tra il 2020 e il 2024 quasi il 64% delle importazioni militari europee (NATO Europa) proveniva dagli Stati Uniti. Questo ha implicato, come scrive “Il Manifesto”, che il riarmo dell’Europa è avvenuto essenzialmente con armi made in USA. Tali risorse avrebbero potuto alimentare i bilanci di aziende europee; invece, sono andate a finanziare i colossi americani come Lockheed Martin, Raytheon, Boeing, General Dynamics ecc. I contrari definiscono questa dinamica un “travaso di ricchezza” dall’UE agli USA in un settore strategico. Vista la stagnazione economica europea e l’urgenza di investimenti in transizione verde, digitale ecc., spendere decine di miliardi all’anno all’estero appare controproducente. Inoltre, arricchendo l’industria USA, l’Europa rende più difficile in futuro competere: i campioni americani accumulano ulteriori capitali e know-how, staccando ancora di più quelli europei. Il punto fondamentale è che l’Europa possiede già un’industria della difesa di buon livello, ma se non viene sostenuta, rischia di regredire o essere assorbita da quella d’oltreoceano. Vari indicatori mostrano che negli ultimi anni qualcosa si muoveva: l’Italia, ad esempio, è salita al 6° posto mondiale come esportatore d’armi grazie a commesse ottenute nel quinquennio 2015-2019. Ciò è avvenuto in settori dove l’industria italiana (e più in generale europea) eccelle: navale, elicotteri, difesa terrestre. Altri Paesi europei – Francia, Germania, Svezia, UK – sono anch’essi tra i top 10 esportatori globali. Questo testimonia che una base industriale esiste ed è competitiva, quando ne ha l’opportunità. Tuttavia, come nota Giorgio Beretta (Osservatorio Opal), gli exploit registrati dal SIPRI si devono a licenze di esportazione concesse in passato (governi Renzi e Gentiloni in Italia) che ora giungono in consegna. Per vedere l’effetto degli investimenti attuali bisognerebbe attendere qualche anno, ma intanto i governi europei stanno scegliendo la scorciatoia di comprare dagli USA anziché ordinare a casa propria. Questo potrebbe indebolire proprio nel momento in cui l’industria UE stava ingranando. Ad esempio, l’azienda italiana Leonardo nel 2024 ha visto le sue azioni salire del +73% grazie alle prospettive di spesa difesa; la tedesca Rheinmetall addirittura +114%. Ciò indica che il mercato crede nelle potenzialità di crescita produttiva in Europa. Ma se poi i decisori preferiscono investire quella spinta finanziaria in beni di importazione, l’ondata rischia di infrangersi. Uno studio del Parlamento UE ha stimato che per ogni euro investito in produzione di difesa in Europa si generano 1,6 euro di valore aggiunto interno, per via dell’indotto e delle filiere lunghe. Al contrario, ogni euro speso all’estero è valore aggiunto perso per l’economia UE. In tempi in cui gli investimenti pubblici in difesa stanno per aumentare di centinaia di miliardi (NATO chiede +2% PIL, e possibili 3-4% per alcuni Paesi), buttare questa occasione a favore di terzi sarebbe un errore storico imperdonabile. Non capita spesso di avere consenso politico per aumentare la spesa in un settore industriale: è la chance per modernizzare e far crescere il comparto europeo. Se la si spreca alimentando l’industria altrui, l’Europa resterà per sempre cliente e mai fornitrice. Inoltre, c’è il tema dei duplicati e delle economie di scala interne mancate. I critici riconoscono che in passato l’Europa ha disperso risorse creando troppi modelli differenti per soddisfare le fiere nazionali (ad esempio, diversi tipi di carri armati e caccia). Ma la soluzione, affermano, non è rimpiazzare i duplicati con un unico modello americano, bensì consolidarli in modelli europei comuni. Se tutti comprano Patriot, la filiera europea di difesa aerea (MBDA, Thales, Diehl ecc.) verrà marginalizzata. Invece, se gli europei unissero i programmi (ad esempio evolvendo SAMP/T o sviluppando congiuntamente un intercettore europeo), i duplicati sparirebbero ugualmente ma il beneficio economico resterebbe in casa. È proprio questo l’obiettivo di iniziative come la Bussola Strategica UE e il Fondo Europeo Difesa: mettere fine alla frammentazione incoraggiando cooperazione industriale continentale. I contrari accusano i governi di ipocrisia: a parole sostengono l’autonomia strategica e varano il ReArm Europe Plan da 800 miliardi di euro, ma poi – come segnala Emmanuele Panero – quell’enorme cifra rischia di finire per buona parte in acquisti di sistemi americani, “gli unici ad avere quelle tecnologie” oggi. Così, afferma Comito, “le ricadute positive sull’industria europea non ci saranno affatto”. È illuminante il caso del Piano franco-tedesco di difesa aerea lanciato dopo l’invasione russa: doveva essere un esempio di Buy European, ma in breve si è trasformato nell’iniziativa “European Sky Shield”, dove 17 Paesi (guidati dalla Germania) hanno deciso di acquistare un mix di sistemi israeliani e americani (Arrow-3 e Patriot) invece di sviluppare qualcosa in Europa. La Francia e l’Italia si sono chiamate fuori, vedendo tradito lo spirito di cooperazione industriale UE. Per i contrari, questa vicenda suona come monito: se ogni Paese corre a comprare all’estero la soluzione pronta, l’Europa unita sul piano militare non nascerà mai e le sue aziende verranno relegate a subcontractor secondari. Vi è anche un risvolto di bilancia commerciale e autonomia finanziaria. L’UE già importa molta energia (gas e petrolio) e tecnologia (microchip, elettronica) dal resto del mondo. Aggiungere anche la difesa come voce massiccia di importazione può peggiorare i saldi esterni e aumentare la vulnerabilità a shock. Un’analisi sul “Corriere della Sera” spiegava che per evitare i dazi USA l’Europa stava offrendo di acquistare più gas naturale liquefatto americano e più armi statunitensi, “per riportare la bilancia commerciale a un livello meno sbilanciato” a favore dell’Europa. Ma è giusto riequilibrare quella bilancia a spese nostre, spendendo in America soldi che potremmo investire in innovazione qui? In pratica, Trump ha imposto un riequilibrio tramite una sorta di tributo: l’Europa compra beni USA (gas, armi) per compiacere Washington. Ciò allevia forse tensioni commerciali nel breve termine, ma priva l’Europa di risorse e la rende ancora più dipendente economicamente dagli USA. Questa subordinazione economica preoccupa non solo i sovranisti ma anche gli europeisti convinti: ad esempio, un’analisi di “The Parliament Magazine” afferma che l’architettura di difesa americanocentrica porta l’Europa a “prendersi il bastone corto” anche in trade-off su commercio e industria. Finché l’UE dipende dagli USA per la sicurezza, finirà col fare concessioni in altri ambiti per mantenere la benevolenza americana. Nel 2025 si è visto con i dazi e l’accordo “sbilenco” Ursula-Trump in cui l’UE ha accettato tariffe del 15% su quasi tutto il proprio export e un 50% su acciaio, pur di evitare di peggio. Chi ci ha guadagnato è l’industria USA: in cambio, l’UE sborsa 600 miliardi $ in prodotti americani e 750 miliardi $ in energia. È evidente che questa strada porta l’Europa a finanziare la potenza economica e militare americana a proprio scapito. Un professore (Alegi) ha fatto notare che l’accordo includeva pure l’incoraggiamento a investimenti dell’industria europea negli USA per 600 miliardi $, il che significa dire alle nostre aziende: “se volete vendere, producete in America, non in Europa”. Anche questo viene ritenuto folle: equivarrebbe a svuotare il tessuto industriale europeo per trapiantarlo altrove, una delocalizzazione politica. Alegi, infatti, esprime preoccupazione: “mi preoccuperei altrettanto, o di più, riguardo i 600 miliardi di investimenti dell’industria europea negli Stati Uniti… si sta dicendo alle aziende di produrre lì e non in Europa”. Sarebbe il colmo di una strategia autolesionista.
Madeleine Maresca, 17 dicembre 2025