Un’altra serie di obiezioni riguarda il merito: diversi Paesi candidati non soddisfano ancora i criteri politici ed economici di adesione e forzarne l’ingresso rischierebbe di indebolire l’UE dall’interno. I critici ricordano le difficoltà incontrate con alcuni nuovi membri dell’Est entrati nel 2004-2007: Ungheria e Polonia, una volta dentro, hanno mostrato derive illiberali che l’UE fatica a correggere. “L’ultima ondata di allargamento ha visto emergere regimi euroscettici come quelli di Orbán e Kaczyński”, nota uno studio, legando questo fenomeno a carenze nella fase di preadesione. Oggi l’UE rischia di replicare la situazione su scala maggiore. Ucraina e Moldavia hanno fatto progressi ma restano democrazie fragili: l’Ucraina, pur eroica nella difesa dall’invasione, prima della guerra era spesso ai vertici degli indici di corruzione in Europa. Il sistema giudiziario necessita di riforme profonde e il potere oligarchico, sebbene ridimensionato, non è scomparso. La Moldavia è un piccolo paese, ma anche lì corruzione e infiltrazioni filorusse restano pericoli (basti pensare che fino al 2020 aveva un presidente filorusso). Nei Balcani occidentali, il quadro preoccupa ancora di più: Serbia e Montenegro hanno governi da anni al potere con tendenze autoritarie; la Serbia, in particolare, ha visto proteste di piazza contro il presidente Vučić per mancanza di responsabilità, violenze poliziesche e pressioni su media e ONG. La Commissione UE nel 2023 ha parlato di “parziale arretramento” della democrazia serba e di “grave erosione della fiducia” dei cittadini, con retorica anti-Ue incoraggiata dal governo. A ciò si aggiunge che Belgrado non ha allineato la sua politica estera a quella europea (non aderisce pienamente alle sanzioni contro la Russia) e mantiene stretti rapporti con Mosca e Pechino. Bosnia-Erzegovina vive una perenne instabilità istituzionale: la struttura di Dayton (gli accordi che, nel 1995, hanno posto fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina) genera paralisi decisionali e una delle entità, la Republika Srpska, è guidata da un leader secessionista filorusso; le riforme richieste (es. in materia giudiziaria) avanzano a rilento. Macedonia del Nord ha compiuto sforzi enormi ma resta ostaggio di veti identitari (prima della Grecia, ora della Bulgaria) che hanno innescato un ritorno dei nazionalisti al governo, i quali minacciano di congelare le concessioni fatte all’UE. Kosovo è forse il più filoeuropeo, ma 5 Stati UE non ne riconoscono l’indipendenza, bloccandone di fatto la candidatura; inoltre, recentemente tensioni etniche nel nord hanno portato a scontri armati, segno di instabilità persistente. Georgia, formalmente candidata dal dicembre 2023, versa in condizioni pessime: la Commissione la definisce “candidata solo sulla carta” dopo un “grave regresso democratico” (persecuzione di oppositori, legge “filorussa” sugli agenti stranieri poi ritirata). Infine, la Turchia è candidata congelata dal 2018, ma con Erdoğan rieletto continua ad allontanarsi dagli standard UE su diritti e libertà. Far entrare paesi con tali criticità, secondo i contrari, minerebbe la coerenza valoriale dell’Unione. Già oggi l’UE fatica a gestire violazioni dello stato di diritto al suo interno; aggiungere Stati con problemi sistemici rischia di istituzionalizzare l’illiberalismo dentro l’UE. Ad esempio, se entrasse la Serbia senza un netto riallineamento geopolitico, l’UE si troverebbe al tavolo un partner che contemporaneamente partecipa alle parate della Vittoria a Mosca e incontra Xi Jinping (come ricordava criticamente il rapporto CEPS). Inoltre, portare dentro Paesi ancora in conflitto aperto o latente pone sfide enormi: l’Ucraina è invasa dalla Russia – come gestire i confini in guerra? Come applicare la clausola di difesa collettiva UE? Bosnia e Kosovo hanno questioni di status irrisolte che potrebbero ripresentarsi in sede di Consiglio UE come veti incrociati. Anche potenziali dispute territoriali (es. il non-riconoscimento del Kosovo da parte di Spagna, Cipro ecc.) sarebbero importate integralmente nell’UE e potrebbero bloccare ulteriormente i lavori. C’è poi la preoccupazione per le mafie e corruzione: l’allargamento del 2007 a Romania e Bulgaria è spesso citato per l’insufficiente preparazione sul fronte anticorruzione, tanto che entrambi i Paesi restarono anni sotto il Meccanismo di Cooperazione e Verifica. Oggi alcuni candidati balcanici presentano indicatori di corruzione peggiori di quelli di Bucarest e Sofia al momento dell’adesione. L’UE rischia di ritrovarsi al proprio interno hub criminali o fenomeni di state capture (cattura dello Stato da parte di oligarchi), con impatto su sicurezza, migrazioni illegali, traffici ecc. Per queste ragioni, i contrari invocano prudenza estrema: solo quando un candidato ha realmente soddisfatto tutti i criteri – politici, economici e normativi – dovrebbe entrare. Qualsiasi sconto sarebbe pericoloso. Se l’UE abdicasse ai criteri per calcolo geopolitico, delegittimerebbe l’intero processo di Copenaghen e aprirebbe la porta a un’Unione a doppia velocità sul rispetto dei valori, mettendo a rischio la tenuta interna.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025