Un secondo filone di critiche al bando 2035 insiste sugli effetti distributivi e sulla concreta fattibilità economica e infrastrutturale della transizione. In questa prospettiva, il timore è che il divieto finisca per creare una “transizione per pochi”, in cui solo chi dispone di reddito sufficiente e vive in aree ben servite possa permettersi un’auto nuova “a zero emissioni”, mentre una larga parte della popolazione resterebbe esclusa o costretta a mantenere a lungo veicoli vecchi e inquinanti. In paesi “latecomer” come l’Italia, la fotografia del mercato è eloquente: nel 2022 le auto elettriche pure rappresentavano appena una piccola quota delle immatricolazioni, con una domanda molto inferiore alla media europea e un parco circolante tra i più anziani del continente. Le colonnine di ricarica sono distribuite in modo disomogeneo, con forti concentrazioni in alcune regioni e ampie zone scoperta in altre; a ciò si aggiungono vincoli oggettivi per la ricarica domestica (condomini, aree rurali, reti locali poco aggiornate). In questo contesto, imporre che dopo il 2035 si possano immatricolare solo veicoli “zero emission allo scarico” viene percepito da una parte dell’opinione pubblica come una misura poco realistica rispetto allo stato di molti territori, come ha osservato il ministro italiano Urso criticando lo scarto tra tempi UE e capacità di adattamento nazionale. Sul fronte dei costi, i detrattori richiamano le analisi di manager industriali che parlano di “tensione insostenibile” per il settore auto. Il CEO di Stellantis Carlos Tavares ha stimato che le attuali regole europee sulle emissioni – in cui si inserisce anche il bando 2035 – comportano un aumento di circa 40% dei costi per l’industria automobilistica, proprio mentre i consumatori si mostrano riluttanti ad acquistare EV costose. Se i listini restano significativamente più alti rispetto alle auto a combustione, il rischio è che una quota crescente di famiglie non possa permettersi il cambio auto, con due conseguenze: un parco circolante che invecchia (perché si rinvia la sostituzione) e una mobilità sempre più polarizzata fra chi può accedere a veicoli moderni e chi rimane legato ad auto vecchie, meno sicure e più inquinanti. In Francia, il ricordo della protesta dei gilet gialli nata dal caro carburanti è spesso evocato come monito politico: misure ambientali percepite come ingiuste o squilibrate socialmente possono generare forti tensioni. Alcuni osservatori temono che un passaggio rapido all’elettrico, se non accompagnato da adeguate politiche redistributive (bonus mirati, trasporto pubblico potenziato, supporto alle aree interne), possa alimentare nuove ondate di protesta. I governanti critici, come la premier Giorgia Meloni, hanno definito il bando 2035 “autodistruttivo” proprio perché temono un impatto eccessivo su famiglie e industrie, in un contesto di salari stagnanti e forti differenze territoriali in Europa. L’argomento non è che la mobilità elettrica non debba crescere, ma che non può essere imposta a tappe forzate senza aver prima creato le condizioni minime: infrastrutture diffuse, prezzi dei veicoli accessibili, reti elettriche adeguate. In questo senso, alcuni critici guardano al modello cinese o statunitense, dove la diffusione degli EV è stata sostenuta soprattutto da incentivi economici e industriali, senza un bando formale entro una data così ravvicinata. Parallelamente, parte del mondo produttivo italiano e tedesco paventa che la combinazione di costi più alti, carenza di infrastrutture e concorrenza di produttori extra-UE (spesso sostenuti da politiche industriali aggressive) possa tradursi in una perdita di competitività duratura per l’industria europea. Infine, i critici osservano che una transizione percepita come socialmente ingiusta rischia di essere politicamente fragile. Se gli elettori associano le politiche climatiche a rincari, divieti e perdita di posti di lavoro, potrebbero spostarsi verso forze politiche apertamente ostili all’azione per il clima, con il paradosso di indebolire la stessa agenda ambientale che il bando 2035 vorrebbe rafforzare. Per questo, molti oppositori non chiedono di abbandonare gli obiettivi di decarbonizzazione, ma propongono di rimodulare i tempi e gli strumenti: spostare la scadenza, introdurre percorsi differenziati fra Paesi e regioni, privilegiare incentivi e investimenti su reti e trasporto pubblico prima dei divieti, mantenere una quota di flessibilità tecnologica (ad esempio per le ibride plug-in) per evitare che il passaggio avvenga in modo troppo brusco. L’alternativa, nella loro lettura, è una transizione “di carta”, approvata nei regolamenti ma poco radicata nella società, destinata a essere rimessa in discussione a ogni cambio di ciclo politico.
Nina Celli, 5 dicembre 2025