Gli oppositori del divieto 2035 sostengono di non essere contro la transizione ecologica in sé, ma di volerla rendere più realistica e sostenibile sul piano socioeconomico. Il mantra principale è che una scadenza così ravvicinata e rigida rischia di infliggere un colpo fatale all’industria europea, con conseguenze gravi per l’occupazione e i territori. In paesi come l’Italia e la Germania, la filiera automotive impiega centinaia di migliaia di persone tra operai, tecnici e indotto: il timore è che chiusure di stabilimenti e licenziamenti di massa possano diventare realtà se i motori termici verranno messi al bando prima che le aziende e il mercato siano pronti. L’associazione tedesca dei costruttori (VDA) ha accolto con favore i recenti segnali di flessibilità definendoli “una buona notizia per centinaia di migliaia di lavoratori” dell’automotive. Un rapporto di CLEPA (associazione europea dei fornitori auto) citato in un articolo AFP prevede oltre 60.000 posti di lavoro persi in Italia entro il 2035 solo tra i fornitori se si passa esclusivamente all’elettrico. Questo perché molte PMI producono componenti (motori, scarichi, cambi) che le EV non richiederanno più. “Demolire la filiera automotive italiana con la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro” è esattamente ciò che, secondo il senatore Arrigoni (Lega), farà la decisione di Bruxelles. Simili allarmi vengono lanciati dai sindacati metalmeccanici, preoccupati che senza adeguate misure si sacrificheranno i lavoratori sull’altare della transizione. Va ricordato che nel 2022–2023 importanti costruttori, come Stellantis, hanno ridotto la produzione in stabilimenti italiani e chiesto cassa integrazione a migliaia di addetti, in parte a causa del calo della domanda di motori tradizionali non compensata ancora dal ramp-up elettrico. Per i contrari, forzare ulteriormente questo sbilanciamento potrebbe tradursi in deindustrializzazione: l’Europa rischia di perdere una fetta storica del proprio manifatturiero se non gestisce con prudenza i tempi. Accanto al fattore lavoro c’è quello del know-how e degli asset industriali. L’Europa ha costruito la sua eccellenza su motori a combustione efficienti (si pensi ai distretti tedeschi del diesel, alla “Motor Valley” emiliana). Mandare in pensione anticipata tali competenze significherebbe buttare via decenni di progresso tecnologico e posizioni di mercato ancora solide. “Accompagnare l’industria nella transizione non può significare smantellare interi settori”, ha dichiarato la premier italiana Meloni, alludendo proprio al rischio di desertificazione industriale. I contrari propongono perciò di diluire la transizione su un arco temporale più ampio, dando modo alle imprese di adattarsi senza traumi. Ad esempio, la mozione del PPE chiede di revocare il bando del 2035 e ridefinire target più attuabili, perché al momento l’obiettivo “sembra più irrealistico che mai”. Si suggerisce di mantenere in produzione per qualche anno in più i modelli ibridi plug-in o full-hybrid – come auspica anche il cancelliere tedesco Merz – così da preservare parte della filiera tradizionale e diluire gli investimenti necessari. Prolungare la vita di queste tecnologie “ponte” potrebbe aiutare a riconvertire gradualmente fabbriche e fornitori, tramite aggiornamenti invece che chiusure. “Il nostro obiettivo dovrebbe essere una regolazione CO₂ flessibile e realistica che centri i target climatici senza compromettere innovazione e valore industriale”, ha scritto Merz a Ursula von der Leyen, riassumendo la filosofia del fronte contrario: equilibrio tra ambiente ed economia.
Nina Celli, 5 dicembre 2025