Un ulteriore argomento a favore del rilancio del nucleare riguarda i benefici economici e tecnologici per l’Italia. Dopo oltre trent’anni di stop, il settore nucleare italiano è sopravvissuto solo in forma di competenze di nicchia (ricerca universitaria, componentistica per centrali estere, medicina nucleare): tornare a costruire reattori sul territorio nazionale significherebbe innescare un volano industriale con ricadute importanti in termini di investimenti, innovazione e lavoro. Secondo un rapporto realizzato da Confindustria ed ENEA nel 2025, un programma nucleare avanzato potrebbe attivare circa 120.000 nuovi posti di lavoro diretti e indiretti entro il 2050. Si tratterebbe soprattutto di occupazione qualificata nei settori dell’ingegneria, della fabbricazione di componenti ad alta tecnologia e dei servizi specialistici. L’Italia dispone già oggi di aziende competitive in vari segmenti della filiera nucleare: uno studio citato dal Politecnico di Milano rileva che circa il 24% dei fornitori coinvolti in progetti europei su SMR sono imprese italiane, una quota persino superiore a quella della Francia (21%). Questo testimonia un know-how nazionale latente in campi come la meccanica di precisione, i sistemi di controllo, i materiali speciali, frutto di decenni di partecipazione a programmi internazionali (ad esempio molte parti degli EPR francesi o cinesi sono state fabbricate in stabilimenti italiani). Avviare un piano domestico di realizzazione SMR/AMR consentirebbe di rafforzare e ampliare questa filiera, anziché lasciarla dipendere solo dalle commesse estere. Il governo stesso ne è consapevole: nella nota con cui i ministri Urso e Pichetto Fratin hanno annunciato il sostegno a Newcleo, si parla esplicitamente di rafforzare la filiera industriale nazionale nel campo dell’energia nucleare innovativa e di far partecipare attivamente l’Italia a questa frontiera tecnologica. I vantaggi economici sarebbero molteplici. In primis, la costruzione di centrali e la produzione di componenti in Italia creerebbero ricchezza interna: invece di importare al 100% tecnologia e combustibili, una parte significativa della spesa rimarrebbe nel circuito economico nazionale. Contribuirebbe anche alla bilancia commerciale: l’Italia potrebbe aspirare a diventare esportatrice di parti di impianti o di know-how (come fornitrice di moduli SMR ad altri Paesi). C’è poi il capitolo ricerca e innovazione: un programma sul nuovo nucleare mobiliterebbe le università e i centri ricerca (ENEA, CNR, INFN) su progetti avanzati di fisica del plasma, ingegneria nucleare, intelligenza artificiale per la sicurezza degli impianti ecc. Questo effetto di spillover tecnologico innalzerebbe le competenze del Paese anche in settori trasversali (dall’elettronica di potenza ai materiali resistenti alle radiazioni), con possibili applicazioni in altri campi industriali. Non va dimenticato inoltre l’indotto: la costruzione e gestione di centrali comporta contratti per aziende di costruzioni, logistica, manutenzione, gestione rifiuti, vigilanza, generando valore su tutto il territorio. Le regioni che ospiteranno impianti beneficeranno di investimenti in infrastrutture e compensazioni (il Ddl nucleare prevede campagne informative e consultazioni per le popolazioni locali, nonché misure compensative). Infine, c’è un argomento più geopolitico: rimanere agganciati alla frontiera nucleare permette all’Italia di sedere ai tavoli internazionali dove si decideranno standard e progetti futuri. Aderendo all’alleanza europea pro-nucleare e investendo in iniziative come l’IPCEI (Importante Progetto di Comune Interesse Europeo) sulla fissione avanzata e la fusione, l’Italia può influire sulle scelte strategiche continentali, invece di subirle passivamente. In altre parole, chi prima sviluppa prototipi e brevetti nel campo degli SMR/AMR dominerà quel mercato negli anni ‘30 e ’40. Se l’Italia restasse ferma, rischierebbe di dover comprare in futuro reattori “chiavi in mano” da altri, mentre avviando ora collaborazioni (come quella con Newcleo o con partner internazionali) potrebbe diventare co-sviluppatrice di tecnologie proprietarie. Gli esempi esteri non mancano: la piccola Nuova Zelanda sta puntando su micro-reattori da esportare; la Polonia coinvolge società americane per portare SMR sul proprio territorio. L’Italia, grazie alla sua base scientifica, ha tutte le carte per giocare questa partita. Come sintetizzato dall’ingegnere nucleare Stefano Monti: la transizione ecologica non è solo un obbligo ambientale ma “un’enorme sfida tecnologica” che mobiliterà risorse per centinaia di trilioni di dollari. Farne parte attiva potrebbe portare benefici economici duraturi. Persino alcune grandi organizzazioni sindacali e parte dell’ambientalismo pragmatico iniziano a valutare positivamente l’idea di investimenti nel nuovo nucleare come opportunità di reindustrializzazione sostenibile (si parla di “Just Transition” includendo eventuali filiere nucleari pulite). In definitiva, un programma sul nucleare di nuova generazione non sarebbe solo un costo, ma un investimento sul futuro del Paese, capace di generare lavoro qualificato, progresso scientifico e una leadership italiana in un settore energetico di punta, il tutto contribuendo nel contempo agli obiettivi climatici.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025