Un aspetto spesso trascurato nei freddi calcoli costi-benefici è la dimensione sociale e politica del nucleare. Questa tecnologia ha un problema di accettazione pubblica tutt’altro che risolto: l’evocazione di disastri passati e la percezione diffusa del rischio nucleare generano opposizioni e timori che possono bloccare o ritardare indefinitamente qualsiasi progetto. L’Italia ne è esempio lampante: ben due referendum popolari (1987 e 2011) hanno sancito la contrarietà dei cittadini alla produzione di energia nucleare. Ignorare questa volontà espressa a livello plebiscitario è visto da molti come politicamente pericoloso e poco democratico. “I referendum si possono scavalcare con nuove leggi, ma governo e Parlamento si assumono la responsabilità politica di andare contro la volontà popolare”, ha ammonito Edo Ronchi (ex ministro dell’Ambiente) quando il tema è riemerso. Anche se le consultazioni abrogative non impediscono tecnicamente di legiferare ex-novo sul nucleare dopo un certo tempo, farlo senza un consenso sociale ampio rischia di causare fratture e proteste. Già ora, all’annuncio del Ddl nucleare 2025, si sono moltiplicate le prese di posizione contrarie: numerose Regioni (anche governate dalla maggioranza di centrodestra) hanno dichiarato di non voler centrali sul proprio territorio; leader dell’opposizione (Movimento 5 Stelle, Verdi) hanno promesso battaglia istituzionale e nelle piazze; comitati locali si preparano a fare muro. Queste resistenze non sono un capriccio irrazionale: discendono dall’esperienza storica di incidenti (Chernobyl contaminò anche zone d’Italia, ad esempio provocando nel 1986 limitazioni al consumo di latte fresco in alcune regioni del nord) e dalle preoccupazioni per la salute e l’ambiente. Nella percezione pubblica, un impianto nucleare è associato a pericoli che vanno oltre il normale: non a caso l’iter per costruirne uno è complesso non solo tecnicamente ma anche per le valutazioni di sicurezza e protezione civile. Occorre predisporre piani d’emergenza, zone di evacuazione preventiva attorno al sito, misure antiterrorismo ecc., aspetti che generano ansia nelle comunità locali e possono far scattare la sindrome Nimby (“non nel mio giardino”). Nel dibattito attuale, i pro-nucleare invitano a “non ideologizzare” e guardare ai dati, ma per i critici è proprio il confronto coi numeri degli incidenti e dei rischi a sconsigliare il nucleare. Uno studio europeo (project ExternE) valutò che un incidente grave ha una probabilità bassa ma un costo potenziale altissimo in termini di danni: includendo questo rischio nella valutazione, il nucleare diverrebbe non competitivo. Per chi vive vicino, conta la paura di dover evacuare la propria casa un giorno: scenario non impossibile (a Fukushima oltre 150.000 persone furono sfollate a lungo termine). La sicurezza nazionale è un altro aspetto: un impianto atomico può diventare bersaglio in caso di conflitti o atti terroristici, con implicazioni gravissime. L’Austria, nel suo ricorso contro la tassonomia UE, ha proprio sostenuto che il nucleare “non rispetta il do-no-harm” anche per i rischi di incidenti e aggressioni esterne. Un’ulteriore dimensione è la responsabilità intergenerazionale: come spiegare alle generazioni future di aver riaperto centrali che producono scorie e possibili pericoli, dopo che generazioni precedenti le avevano chiuse? C’è chi parla di “tradimento” verso i giovani, che scendono in piazza per il clima chiedendo energie pulite: molti movimenti ecologisti giovanili includono il no-nucleare nelle loro piattaforme (es. Fridays for Future in Italia si è espresso contro il Ddl nucleare del 2025, definendolo una distrazione da rinnovabili ed efficienza). Dal punto di vista strettamente pragmatico, l’opposizione sociale comporta quasi sicuramente ritardi e costi aggiuntivi: contestazioni legali sui siti, ricorsi amministrativi, necessità di maggiore spesa per compensazioni alle comunità locali ecc. Tutto ciò rende ancora più aleatori i tempi di realizzazione. Si rischia il ripetersi di casi come quello del deposito nazionale delle scorie: un’infrastruttura necessaria e urgente, eppure bloccata da decenni di Nimby e Nimto (Not in my term of office) da parte di politici locali. Perché con le centrali dovrebbe andare diversamente? In Veneto, a fine 2024, il consiglio regionale (maggioranza centrodestra) ha votato all’unanimità contro anche solo l’ipotesi di un reattore modulare a Marghera. Se perfino aree politicamente allineate con il governo dicono no, appare evidente che la società italiana non è pronta – e forse non lo sarà per molto tempo – ad accettare nuove installazioni nucleari sul proprio suolo. Il dibattito appare ancora polarizzato: “nucleare sì” tende a provenire da élite tecnocratiche o industriali, mentre le popolazioni e gli amministratori locali restano in prevalenza per il “nucleare no”. Questo squilibrio è di per sé un fattore di rischio per il successo di qualsiasi progetto. Gli esperti di politiche energetiche notano che, al di là delle questioni tecniche, una transizione deve essere socialmente sostenibile: investire miliardi in una direzione che genera opposizione diffusa può erodere la fiducia nelle istituzioni e distogliere attenzione dalle misure climatiche condivise. Il nucleare, in sostanza, difetta di sostenibilità sociale e politica: è troppo impopolare e controverso per poter essere implementato in modo efficace e trasparente. Un’energia che richiede, per essere portata avanti, di vincere la resistenza dei cittadini tramite campagne di persuasione (il governo italiano ha stanziato 7,5 milioni per “campagne informative” pro-nucleare) e di sfidare esiti referendari è un’energia priva di legittimazione democratica. Un progetto calato dall’alto in questo campo rischierebbe di fare la fine del programma nucleare italiano del 2009-2011: annunciato, contestato e infine affossato dal referendum post-Fukushima. Invece di impantanarsi di nuovo in uno scontro ideologico e territoriale, i contrari suggeriscono di puntare sulle soluzioni energetiche che godono di maggiore consenso e partecipazione pubblica, come le comunità energetiche rinnovabili, le smart grid locali, l’efficienza diffusa: strade che coinvolgono i cittadini come parte attiva e non li mettono di fronte a paure esistenziali. Dunque, il nucleare, benché presentato come “green” dai suoi sostenitori, non supera il test fondamentale di un’energia sostenibile: essere sicura, accettata dalla comunità e orientata al bene comune senza divisioni profonde. E in mancanza di questo, continuare a insistere sull’atomo appare controproducente e destinato al fallimento in una società libera e informata.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025