I critici sostengono che il nucleare di nuova generazione sia tutt’altro che una “soluzione green” sul piano economico e pratico: al contrario, lo considerano antieconomico e troppo lento per incidere positivamente sulla transizione ecologica, specie se confrontato con le alternative disponibili. Un primo dato spesso citato è quello dei costi. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), l’elettricità prodotta da centrali nucleari di fissione risulta oltre tre volte più costosa di quella da impianti eolici o fotovoltaici. Questo perché realizzare e gestire una centrale atomica comporta spese enormi: cantiere ultra-specializzato, sistemi di sicurezza ridondanti, personale qualificato in continuo addestramento, e poi lo smantellamento finale e la gestione delle scorie. Tutti questi costi ricadono sulle bollette o sulla fiscalità. Esempi concreti abbondano: in Francia, il reattore EPR in costruzione a Flamanville doveva costare 3,3 miliardi € con avvio nel 2012, ma è ancora incompiuto dopo 15 anni e il budget lievitato oltre gli 11 miliardi €. In Finlandia, l’EPR di Olkiluoto-3 è entrato in servizio nel 2022 con 12 anni di ritardo e un costo doppio rispetto al previsto. Questi sforamenti sono la norma piuttosto che l’eccezione per i grandi progetti nucleari in Occidente. I reattori modulari piccoli (SMR) sono propagandati come più economici perché di potenza ridotta e replicabili: ma i critici fanno notare che perdendo le economie di scala (un impianto da 300 MW non produce al costo per kW di uno da 1200 MW) e aggiungendo le complessità di serie, il vantaggio è tutt’altro che garantito. Anzi, recenti stime indipendenti indicano che il costo livellato dell’energia (LCOE) degli SMR potrebbe essere 3-5 volte maggiore di quello di solare+eolico con batterie. La società di ricerca CSIRO ha comparato uno scenario 100% rinnovabili con accumuli versus uno nucleare+fossili, trovando il primo nettamente più economico persino includendo i costi di stoccaggio. Inoltre, i costi nominali spesso non includono i sussidi statali (assicurazione per incidenti, garanzie di credito ecc.) di cui il nucleare tipicamente necessita. Oltre al costo viene sottolineata la lentezza: la costruzione di reattori richiede tempi incompatibili con l’urgenza climatica. Un paper del Politecnico di Milano stima che anche partendo subito, in Italia non avremmo alcuna centrale operativa prima del 2035-2040, e solo dopo il 2040 il nucleare potrebbe iniziare a dare un contributo non trascurabile al mix elettrico (comunque minoritario, ~10-13%). Il grosso arriverebbe attorno al 2050 (fino al 20% del fabbisogno). Ma il prossimo decennio (2020-2030) è cruciale per tagliare le emissioni e rispettare gli impegni di Parigi: puntare su una strategia che produce risultati solo dopo il 2040 sarebbe un grave errore di pianificazione. Le energie rinnovabili, al contrario, possono essere installate in pochi mesi o anni: nel 2024 a livello mondiale sono stati aggiunti circa 565 GW di nuova capacità rinnovabile (solare+eolico) in un solo anno, mentre il nucleare è avanzato di soli 5,4 GW netti. È una differenza di due ordini di grandezza. Continuando di questo passo, l’atomo è destinato ad avere un peso sempre più marginale, mentre il grosso della decarbonizzazione lo faranno le rinnovabili. Perché investire enormi risorse – si chiedono gli ambientalisti – in poche centrali costose che vedremmo forse tra 15-20 anni, quando la stessa spesa potrebbe finanziare gigawatt di eolico, solare, batterie e reti oggi? Greenpeace, Legambiente e WWF hanno definito il ritorno al nucleare un “dibattito sterile” che rischia solo di rallentare la vera rivoluzione energetica in corso. Le associazioni stimano che con politiche decise l’Italia potrebbe coprire con rinnovabili il 100% dell’elettricità già entro il 2040, evitando di intraprendere avventure nucleari antieconomiche. Segnalano inoltre che i capitali privati fuggono dal nucleare: la maggior parte dei nuovi progetti ha bisogno di forti garanzie pubbliche o addirittura della statalizzazione (si veda EDF in Francia, rinazionalizzata per sostenere il programma nucleare). Al contrario, solare ed eolico attraggono investitori per via dei costi in picchiata: dal 2010 ad oggi il costo del fotovoltaico è diminuito di oltre l’80%, quello delle batterie del 90%, rendendo queste tecnologie competitive senza incentivi in molte regioni. In Italia, la potenza rinnovabile installata potrebbe raddoppiare in pochi anni se si snellissero le procedure. L’obiezione che “le rinnovabili da sole non bastano” viene contrattaccata evidenziando i progressi nell’accumulo energetico e nelle smart grid: già oggi esistono soluzioni di stoccaggio (dalle batterie al pompaggio idroelettrico) che consentono di compensare l’intermittenza su scale di ore o giorni, e all’orizzonte vi sono tecnologie per la stagionalità (idrogeno verde, impianti power-to-gas). I critici ricordano soprattutto che efficienza energetica e riduzione degli sprechi possono ridurre notevolmente il fabbisogno, rendendo gestibile la fornitura con fonti pulite. Continuare a investire in centrali nucleari, per loro, significherebbe dirottare risorse e attenzione da questo sforzo prioritario, rischiando di compromettere gli obiettivi 2030. Il nucleare, dunque, non sia né economicamente né temporalmente “green”: i suoi costi sociali (bollette più care, oneri a carico dello Stato) e i suoi tempi lunghi lo rendono un ostacolo più che un aiuto nella lotta alla crisi climatica. La vera soluzione verde consisterebbe nel concentrare gli sforzi su ciò che sta già funzionando – rinnovabili, accumuli, reti, efficienza – evitando di replicare errori del passato con progetti nucleari destinati a rivelarsi insostenibili e ad arrivare fuori tempo massimo.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025