Per i critici, il Superbonus 110% ha inflitto alle finanze statali un colpo durissimo, dimostrando come una politica concepita senza criterio di spesa possa aprire una voragine di bilancio. L’accusa principale è di insostenibilità fiscale: la montagna di crediti d’imposta generata ha sforato di gran lunga le previsioni iniziali, trasformandosi in un macigno sul debito pubblico. I numeri presentati dal MEF e dagli organi di controllo sono eloquenti. Il governo Conte II stimava che il Superbonus avrebbe avuto un impatto intorno ai €35 miliardi diluiti fino al 2035. In realtà, nel giro di pochi anni, il Tesoro ha dovuto riconoscere circa €160 miliardi di crediti (considerando tutte le agevolazioni edilizie straordinarie). Giancarlo Giorgetti, attuale Ministro dell’Economia, ha parlato di “situazione grave”, con oltre €100 mld di costi già consolidati e ulteriori miliardi di perdite attese fino al 2026. L’ex premier Mario Draghi, nel 2022, definì senza mezzi termini il meccanismo “un buco” che stava facendo esplodere i prezzi e il disavanzo. Queste deregulation fiscale ha avuto conseguenze immediate sui conti pubblici: il deficit/PIL italiano del 2022 si è assestato ad un altissimo 8%, con almeno 2 punti percentuali attribuibili alle misure sui bonus edilizi. La stessa Commissione Europea ha espresso preoccupazione: Eurostat ha richiesto di contabilizzare più rigorosamente questi crediti, il che potrebbe far lievitare ulteriormente il deficit ufficiale nel 2024. In altre parole, il Superbonus ha compromesso gli sforzi di risanamento del bilancio intrapresi in altri ambiti. Corte dei Conti e Ufficio Parlamentare di Bilancio hanno parlato di effetti “di dimensione macroscopica” e “senza precedenti” sui conti dello Stato. La Corte stima che, anche tenendo conto dell’indotto e delle maggiori tasse incassate, il rimborso di quanto speso richiederà oltre 24 anni: un orizzonte lunghissimo, che significa di fatto scaricare queste spese sulle generazioni future. Senza considerare le spese aggiuntive per interessi sul debito maggiore. Luis Garicano, ex economista ed eurodeputato, calcola che il Superbonus e simili costeranno in totale circa €220 miliardi agli italiani – pari a una manovra finanziaria straordinaria di 12% del PIL, concentrata in pochi anni. Per dare un’idea, è come se si fosse finanziata con debito aggiuntivo un’intera legge di Bilancio mega-espansiva ogni anno dal 2020 al 2023. Una scelta che inevitabilmente ha aumentato il rapporto debito/PIL, ipotecando la tenuta finanziaria del Paese: Moody’s e altre agenzie hanno più volte avvertito sull’impatto negativo dei bonus edilizi sulla traiettoria del debito italiano. I contrari sottolineano che con €120-160 miliardi si sarebbero potute fare politiche ben più utili e mirate. “Le risorse non sono infinite” – ha scritto Cottarelli – e investire l’equivalente di un anno di spesa sanitaria in un solo settore come l’edilizia è stato scriteriato. Ogni euro speso in Superbonus è un euro in meno per ospedali, scuole, innovazione, riduzione del cuneo fiscale. L’opportunità persa è enorme: invece di distribuire sussidi a pioggia su ristrutturazioni private (anche di seconde case, villette e immobili di lusso nei primi tempi), quello stesso denaro pubblico poteva finanziare politiche alternative: edilizia pubblica efficiente (case popolari green per chi ne ha bisogno), impianti di energie rinnovabili su larga scala (che riducono la bolletta di tutti), trasporto pubblico non inquinante, o un serio piano di messa in sicurezza di scuole e infrastrutture pubbliche. Insomma, per i critici, il Superbonus è stato un clamoroso spreco di risorse che ha drenato fondi da altre priorità. Basti pensare che la legge di Bilancio 2023 ha dovuto trovare coperture per 21 miliardi (in aumento deficit) principalmente per fare fronte al “buco” dei crediti dei bonus edilizi: quei 21 miliardi avrebbero potuto finanziare misure strutturali di crescita; invece, sono andati a sanare gli effetti di un incentivo mal calibrato. Il problema fiscale è emerso in pieno nel 2023, quando ISTAT ha rivisto al rialzo il deficit allarmando governo e UE: +38 miliardi di maggiore indebitamento, quasi tutti dovuti alla contabilizzazione ex-post dei crediti Superbonus. In un periodo in cui l’Italia deve tornare sotto il 3% di deficit/PIL, il lascito del 110% rende il compito molto più difficile, esponendo il Paese a possibili procedure d’infrazione e a minore credibilità finanziaria internazionale. Non a caso, a fine 2023 Giorgetti ha parlato di “virtuosa inversione di rotta” e rigore nei conti come risposta all’eredità pesante del Superbonus. I detrattori fanno poi un discorso di efficienza allocativa: il Superbonus incarna un caso da manuale di risorse pubbliche spese nel modo meno efficiente. Pagare 110 per ottenere 100 è, in sé, un assurdo economico, aggravato dal fatto che la platea non era ristretta a soggetti bisognosi. Giorgia Meloni ha definito il bonus “la più grande follia che potessero fare”, imputandogli di aver creato un gigantesco debito occulto senza costruire nulla di realmente produttivo. In termini di finanza pubblica, il 110% è stato un espediente per far sembrare la spesa come “minori entrate” differite: un artificio contabile (crediti fiscali) che ha aggirato temporaneamente il bilancio salvo poi presentare il conto tutto insieme. Il Procuratore Generale della Corte dei Conti, nella sua audizione 2023, ha parlato di “deresponsabilizzazione di massa”: tutti spendevano senza badare ai costi, tanto pagava lo Stato. Con tragica ironia, il Superbonus ha ricordato certe pratiche di finanza allegra del passato (condoni di massa, spesa facile a deficit), proprio mentre l’Italia cercava di costruirsi una reputazione di rigore. Per i contrari, questo modello è eticamente e economicamente sbagliato: caricare decine di miliardi sul debito pubblico per lavori privati – spesso a beneficio di chi poteva comunque ristrutturare – è un’ingiustizia intergenerazionale e uno sperpero che il Paese non poteva permettersi.
Nina Celli, 29 novembre 2025