I detrattori di Milei giudicano la sua politica estera e strategica spericolata e controproducente per gli interessi di lungo periodo dell’Argentina. In particolare, contestano il doppio rischio che sta emergendo: da un lato Milei sta isolando il Paese dai suoi naturali partner economici e regionali con una diplomazia ideologica e conflittuale; dall’altro, ha reso l’Argentina eccessivamente dipendente dall’aiuto degli Stati Uniti, in un rapporto squilibrato e potenzialmente ricattatorio. Sul primo fronte, la retorica di Milei contro regimi “comunisti” ha avuto come bersagli primari Cina e Brasile, ovvero rispettivamente il secondo mercato di destinazione dell’export argentino e il primo partner commerciale in assoluto. In campagna elettorale Milei dichiarò che non avrebbe “trattato con assassini” riferendosi al governo cinese, definì Xi Jinping “un dittatore assassino” e il popolo cinese “non libero”; inoltre, tramite la sua emissaria Mondino, ventilò l’ipotesi di rompere i rapporti diplomatici sia con Pechino sia con Brasilia. Tali dichiarazioni – pur in parte ritrattate o smentite dopo l’elezione – hanno creato tensioni e preoccupazione. La Cina ha ufficialmente messo in guardia che “sarebbe un errore gravissimo” rompere legami con partner chiave. E infatti, di fronte alle possibili ripercussioni (la Cina acquista enormi quantità di soia e carne argentine, ed è investitore nel litio e nelle dighe), Milei ha dovuto fare marcia indietro: la sua futura cancelliere ha chiarito che non chiuderanno i canali di commercio, limitandosi a dire che non faranno più “contratti segreti” ma rapporti più trasparenti. Resta però il danno: la fiducia dei partner è incrinata. Il Brasile di Lula ha rapporti gelidi con Milei, che in passato lo insultò chiamandolo “comunista corrotto”; Lula ha definito “triste” la vittoria di Milei. Questo ha già portato a problemi: il Brasile ha minacciato di escludere l’Argentina da un importante progetto di moneta comune sudamericana, ha frenato su collaborazione energetica e potrebbe penalizzare l’export argentino se Milei uscirà dal Mercosur (cosa ipotizzata). L’isolamento regionale è pericoloso: l’Argentina ha bisogno del Mercosur e dei vicini per commercio, sicurezza e negoziati globali (ad esempio su clima). Litigare con tutti per motivi ideologici riduce la capacità di influenzare decisioni che riguardano l’area (come la gestione dell’Amazzonia, l’integrazione infrastrutturale continentale). Sulla Cina, poi, i critici evidenziano che Milei ha messo a rischio investimenti vitali: per esempio, era in corso un progetto cinese da 8 miliardi $ per centrali nucleari in Argentina, ora sospeso per volontà del nuovo governo. Oppure l’adesione alla Nuova Via della Seta, revocata da Milei, che poteva portare finanziamenti a infrastrutture. Questa rottura potrebbe costare opportunità di sviluppo che altri Paesi latinoamericani (Brasile, Cile) stanno cogliendo con equilibrio. La diplomazia di Milei, dunque, appare imprudente e dogmatica, anteponendo affinità ideologiche al pragmatismo economico. Il timore è che l’Argentina, rompendo con partner multipli, rimanga isolata e priva di alternative, costretta a un unico alleato: gli Stati Uniti. Ed è qui il secondo aspetto: la dipendenza da Washington. È innegabile che l’amministrazione Trump abbia fornito a Milei un supporto cruciale nel 2025: la famosa linea di credito di 20 miliardi di $ dal Tesoro USA e banche vicine, condizionata alla vittoria di Milei alle midterm. Questo aiuto, per quanto utile a evitare una crisi valutaria preelettorale, viene visto dai critici come un accordo faustiano. La frase di Trump “se vince restiamo, se perde ce ne andiamo” suona come un’ingerenza nella sovranità argentina, quasi una minaccia: un presidente estero che decide le sorti di un programma di salvataggio in base all’esito elettorale di un altro Paese. Una volta ottenuto l’aiuto, Milei si trova inevitabilmente debitore politicamente: infatti non ha esitato a definire Trump “un grande amico” ringraziandolo per la fiducia. Ora, l’ancora di salvezza americana ha delle contropartite pesanti: come rivelato da “L’Indipendente”, il creditore USA (nella persona del Segretario al Tesoro Bessent) chiede in cambio privatizzazioni accelerate, tagli ancora più profondi e apertura totale al capitale straniero. L’Argentina viene così legata “mani e piedi a Washington”: di fatto, deve adattare la propria politica economica agli interessi di investitori vicini alla Casa Bianca (nell’articolo si cita Rob Citrone, miliardario con forti posizioni su bond argentini, che avrebbe fatto pressioni per il salvataggio per evitare perdite personali). I critici vedono questo come un caso di colonialismo finanziario: l’Argentina, in crisi, ha consegnato le chiavi della propria economia a determinati circoli finanziari USA in cambio di ossigeno immediato. Inoltre, si fa notare la precarietà di appoggiarsi solo a Trump. Basare tutta la strategia su un solo partner è rischioso: basta un cambio di amministrazione a Washington e l’Argentina resterebbe scoperta, avendo magari già perso i rapporti con Cina o Europa. L’UE ha manifestato freddezza verso Milei e anche all’interno degli USA la continuità del sostegno non è garantita oltre Trump. C’è poi la questione della sovranità: Milei ama parlare di libertà dall’oppressione statale, ma di fatto la sua Argentina rischia di diventare un protettorato economico degli USA. Quando Axel Kicillof, governatore peronista, ha criticato i 40 miliardi USA dicendo “né il governo americano né JP Morgan sono società benefiche; se vengono è per profitto”, ha toccato un punto vero: questi aiuti non sono altruismo, vogliono qualcosa in cambio (dalle concessioni su risorse naturali argentine a posizioni politiche allineate in forum internazionali). Il pericolo è che l’Argentina perda autonomia decisionale su settori chiave (energia, trasporti, difesa) condizionata dagli accordi di Milei con gli alleati scelti. Già si è visto con il G20: per compiacere Trump, l’Argentina si è accodata agli USA nel bloccare una dichiarazione sulla parità di genere, isolandosi dagli altri 19 Paesi. In futuro, che succederà su dossier come la Cina? L’Argentina potrebbe dover rifiutare investimenti cinesi nel litio o dire di no a partecipare ai BRICS, anche se convenisse, solo perché vincolata alla sfera USA. Questo sbilanciamento è insidioso. La politica estera di Milei sta trasformando l’Argentina da Paese autonomo con relazioni diversificate a satellite monodimensionale: ha tagliato i ponti a est (Cina), al sud (vicini latinoamericani) e a est (mondo arabo? Ha spostato subito l’ambasciata a Gerusalemme, irritando partner islamici), puntando tutto sull’asse Washington-Tel Aviv. Una strategia che lascia il Paese diplomaticamente isolato – un solo amico potente, tanti ex amici alienati. Questa dipendenza è considerata pericolosa e umiliante: l’Argentina, che storicamente cercava equilibrio tra blocchi, ora appare succube di un solo attore. Il motto di molti critici è diventato: “Abbiamo cacciato il FMI dalla porta e l’abbiamo fatto rientrare dalla finestra USA”. Insomma, Milei sta scambiando un’indipendenza di facciata (contro il “comunismo”) con una nuova dipendenza ben concreta dal “Dollaro”, che potrebbe costare al Paese in termini di patrimonio nazionale (privatizzazioni forzate) e di libertà di manovra in politica estera. Il risultato finale temuto è un’Argentina geopoliticamente isolata, priva del sostegno del vicinato e vulnerabile alle pressioni di un alleato ingombrante, una posizione di debolezza anziché di forza nello scenario globale.
Madeleine Maresca, 27 novembre 2025