Nella sua dimensione politico-strutturale, la guerra tra Israele e Hamas può essere letta come la manifestazione acuta di una controversia molto più ampia, che riguarda occupazione, autodeterminazione, sicurezza e diritti fondamentali. Finché questi nodi restano irrisolti, la guerra non può considerarsi davvero conclusa; al massimo, è temporaneamente sospesa. Una pace reale richiederebbe almeno un quadro credibile verso due obiettivi: sicurezza garantita per gli israeliani e fine duratura dell’assedio, dell’occupazione e della frammentazione per i palestinesi. Oggi nessuno di questi due elementi appare assicurato. Il piano che ha accompagnato il cessate il fuoco rinvia a fasi successive le questioni chiave: chi governerà Gaza, quale ruolo avrà l’Autorità Palestinese, come verrà garantita la sicurezza senza presenza militare permanente israeliana, quale sarà il destino della Cisgiordania. Le dichiarazioni di diversi leader israeliani continuano a respingere esplicitamente l’idea di uno Stato palestinese sovrano; dall’altro lato, Hamas e altre organizzazioni armate non accettano la legittimità dell’assetto attuale. In assenza di un orizzonte politico condiviso, la tregua appare un compromesso minimo legato alla stanchezza bellica e alla pressione esterna, non il preludio a una soluzione. Questa tesi insiste anche sul tema della giustizia e dei traumi. La guerra ha generato livelli di sofferenza umana eccezionali: comunità palestinesi distrutte, una generazione di bambini cresciuta sotto le bombe, famiglie israeliane segnate da massacri, rapimenti, lutti. La memoria del 7 ottobre e delle devastazioni a Gaza alimenta sentimenti di paura, rancore, desiderio di vendetta. Senza forme di riconoscimento delle responsabilità, risarcimenti, percorsi di riconciliazione, questi traumi collettivi rischiano di alimentare nuove ondate di violenza. In altre parole, anche se i cannoni tacciono, nella mente e nella società la guerra continua. Alcuni sottolineano la dimensione regionale e globale. Il conflitto Israele–Hamas è strettamente legato a equilibri più ampi: rapporti con Iran e suoi alleati, posizionamento di potenze come Stati Uniti, Russia, Unione Europea, dinamiche interne al mondo arabo. Gli ultimi anni hanno mostrato quanto sia facile che scontri a Gaza si traducano in tensioni sui fronti libanese, siriano, yemenita, sul mar Rosso. Una tregua locale non disinnesca automaticamente questi meccanismi: milizie e attori non statali possono utilizzare la causa palestinese come motivo di mobilitazione anche in futuro. Fintanto che non verrà consolidato un assetto regionale di sicurezza, il rischio che la guerra “ritorni” sotto altre forme è elevato. Mancano dunque gli elementi che storicamente caratterizzano la vera fine di una guerra: un accordo politico condiviso, un quadro istituzionale duraturo, un avvio credibile di processi di giustizia e riconciliazione, garanzie regionali. Senza questi pilastri, ciò che si osserva oggi è una pausa armata in un conflitto lungo, non la sua conclusione. Parlare di “guerra finita” può essere comprensibile sul piano emotivo, ma non descrive la realtà profonda di un contesto che resta altamente instabile e segnato da strutture di violenza ancora intatte.
Madeleine Maresca, 22 novembre 2025