La guerra è finita perché si è passati a una fase istituzionalmente riconosciuta come post-conflitto. Il cessate il fuoco è stato negoziato non come tregua tattica di qualche giorno, ma come primo segmento di un accordo articolato: ritiro graduale delle truppe israeliane da Gaza, scambio di ostaggi e prigionieri, ingresso massiccio di aiuti, ruolo di monitoraggio di attori internazionali. Il fatto che questo impianto sia stato formalizzato in documenti, annunciato congiuntamente e tradotto in atti concreti distingue la situazione attuale dalle pause precedenti, che erano legate a intese più fragili e circoscritte. Un elemento centrale è il riconoscimento da parte delle istituzioni internazionali. Quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva una risoluzione che “accoglie” un piano con lo scopo esplicito di porre fine alla guerra, autorizza missioni di stabilizzazione e legittima la transizione verso la ricostruzione, si compie un salto di qualità: non si tratta più solo di una scelta bilaterale, ma di un quadro multilaterale di dopoguerra. Le organizzazioni umanitarie e le agenzie ONU reindirizzano il proprio lavoro dalla gestione dell’emergenza a programmi di rilancio dei servizi essenziali, sostegno psicologico, rientro degli sfollati, pianificazione della ripresa economica. Tutto questo è tipico dei contesti post-bellici. I sostenitori di questa visione sottolineano anche il cambio di agenda politica: i dibattiti internazionali non ruotano più intorno alla domanda “se” fermare le ostilità, ma “come” consolidare la tregua e “chi” governerà la Striscia nei prossimi anni. L’attenzione si sposta su forme di amministrazione temporanea, possibili ruoli per l’Autorità Palestinese, coinvolgimento della regione e garanzie di sicurezza. Le conferenze multilaterali discutono di fondi per infrastrutture, corridoi umanitari permanenti, meccanismi di supervisione. Si ragiona su un orizzonte di medio-lungo termine, tipico del dopoguerra, non più sull’urgenza di fermare i bombardamenti. Questa tesi sottolinea il valore simbolico e politico delle dichiarazioni di fine conflitto. Quando attori religiosi come il Patriarca latino di Gerusalemme, leader politici locali e regionali o capi di organizzazioni internazionali parlano, in forme diverse, di “fine della guerra”, contribuiscono a consolidare una percezione condivisa. Non bisogna confondere “pace compiuta” e “fine della guerra”: nessuno nega che permangano tensioni enormi, ma l’assenza di offensive generalizzate, l’avvio di percorsi di ricostruzione e il riconoscimento multilaterale del cessate il fuoco bastano per dire che il conflitto armato 2023–2025 è stato formalmente archiviato e che oggi ci si muove, per quanto faticosamente, nel terreno del dopoguerra.
Madeleine Maresca, 22 novembre 2025