Affermare che la guerra sia finita è prematuro e fuorviante. Il punto di partenza è la constatazione che il cessate il fuoco è costellato di violazioni, soprattutto nella forma di raid israeliani e morti palestinesi anche dopo l’annuncio della tregua. Finché civili continuano a essere uccisi, infrastrutture bombardate e combattimenti, seppur localizzati, parlare di “fine della guerra” appare più una scelta retorica che una descrizione accurata. La guerra non si misura solo dalla scala dei bombardamenti, ma dal fatto che la violenza organizzata rimanga uno strumento esplicito di politica e sicurezza. I sostenitori di questa tesi sottolineano che non esiste un trattato di pace né un accordo politico definitivo: esiste solo una “fase 1” di un piano che tutti riconoscono come parziale. Nulla impedisce alle parti di interrompere il cessate il fuoco se lo ritenessero conveniente. Hamas conserva la propria struttura armata, non ha annunciato la rinuncia alla lotta armata, e parte dei suoi dirigenti continuano a presentare la tregua come momento tattico. Israele mantiene una presenza militare significativa e rivendica il diritto di intervenire ovunque identifichi una minaccia, definendo l’eliminazione della capacità offensiva di Hamas un obiettivo non ancora pienamente raggiunto. In termini giuridici e strategici, questo è esattamente lo schema di una guerra “congelata”, non conclusa. Un altro pilastro di questa tesi è la mancata soluzione delle cause strutturali del conflitto. La Striscia resta devastata, sottoposta a fortissime restrizioni su movimenti e beni, con una popolazione che vive di aiuti e in condizioni di emergenza. La Cisgiordania continua a essere teatro di occupazione, colonizzazione e scontri, con un livello di violenza che in alcuni periodi ha raggiunto record pluridecennali. La prospettiva di uno Stato palestinese sovrano rimane lontana, mentre la frammentazione territoriale e politica si approfondisce. In questo contesto, definire “finita” la guerra a Gaza significa isolare il segmento più eclatante di violenza senza considerare il continuum del conflitto israelo-palestinese. Dal punto di vista dei diritti umani, infine, il linguaggio della “fine della guerra” rischia di normalizzare una situazione ancora inaccettabile. Due anni di ostilità hanno prodotto decine di migliaia di morti, distruzione massiccia e accuse gravissime, inclusa quella di genocidio. Organizzazioni internazionali insistono sulla necessità di riconoscere le responsabilità, indagini indipendenti, eventuale intervento della giustizia penale internazionale. Se la guerra fosse davvero finita, ci si aspetterebbe un processo di verità, giustizia e riparazione; al contrario, le violazioni denunciate proseguono nella forma di blocco, ostacoli agli aiuti, uso della forza letale in circostanze controverse. Per i contrari, dunque, siamo di fronte a una fase di conflitto trasformato, non cessato: chiamarla “fine della guerra” significa sottovalutare la continuità della violenza e delle sue cause.
Madeleine Maresca, 22 novembre 2025