Un ulteriore punto critico sollevato dagli oppositori è che le imposte patrimoniali, per loro natura, generano entrate piuttosto modeste rispetto alle aspettative, specialmente se disegnate per colpire solo i grandi ricchi. Ciò le renderebbe un esercizio più simbolico che sostanziale, mentre esistono altre leve fiscali potenzialmente più fruttuose e meno problematiche. Uno sguardo ai Paesi che mantengono patrimoniali conferma la scarsa resa: in Spagna, dove l’aliquota può arrivare al 3.5% oltre i 10 milioni, il gettito complessivo dell’Impuesto sobre el Patrimonio è stato di circa €1,5 miliardi, una cifra importante ma pari a circa lo 0,1% del PIL, praticamente irrilevante per i conti pubblici (e comunque ottenuta sommando la tassa ordinaria regionale e la nuova “imposta di solidarietà” statale). In Svizzera, i cantoni incassano dallo wealth tax locale in media lo 0,3-0,4% del PIL. In Norvegia, la patrimoniale porta circa €1,3 miliardi (0,3% PIL). Questi importi sono decimali rispetto ai volumi di spesa pubblica o di deficit. “Reuters” sintetizza: “le patrimoniali generano tipicamente pochi decimali di PIL di gettito”, perché base ristretta e facilmente erosa. Se in Italia avesse lo stesso ordine di grandezza (0,2-0,3% PIL), significherebbe 4-6 miliardi l’anno: ben lontani dagli ottimistici 20-30 miliardi talvolta citati dai proponenti. E questo se la tassa fosse permanente; se fosse una tantum, sarebbe un gettito unico non ripetibile. Inoltre, per ottenere somme significative, bisognerebbe tararla su soglie più basse o con aliquote più alte, colpendo però così anche il ceto medio-alto e rischiando maggiori effetti distorsivi. Dunque, secondo i contrari, la patrimoniale non avrebbe effetti decisivi: provoca reazioni e costi ma non risolve i problemi di bilancio né alimenta davvero il welfare in modo sostenuto. Esistono invece alternative fiscali più efficaci e meno costose in termini di effetti negativi. Una delle principali è il miglioramento della tassazione sui redditi da capitale e sulle eredità. Il FMI, ad esempio, ha chiaramente suggerito che incrementare la tassazione dei capital gains e dei dividendi può essere sia più equo sia più efficiente di una wealth tax netta. Questo perché le imposte sui redditi di capitale colpiscono gli utili effettivamente realizzati, evitando il problema di tassare patrimonio che magari non genera flusso di cassa; inoltre inseguono la ricchezza “dinamica” dove si manifesta come reddito, riducendo alcuni tipi di elusione. Molti economisti liberali e riformisti, da Nicola Rossi a Tommaso Di Tanno, sostengono che sia preferibile tassare i frutti della ricchezza anziché la ricchezza in sé. Tradotto: alzare l’aliquota su dividendi, interessi, plusvalenze, magari equiparandola a quella sui redditi da lavoro (oggi in Italia al 26% flat, si potrebbe portare ad esempio al 30-35% progressivo), oppure eliminare certe esenzioni (ad esempio la plusvalenza su vendita di prima casa che in alcuni casi arricchisce molto senza imposta). Un altro fronte è l’imposta di successione: l’Italia ha oggi tasse di successione molto basse (4% per eredi diretti con franchigia di 1 milione a testa, 0% per coniuge su casa principale ecc.). Molti suggeriscono di aumentare significativamente la tassa di successione sui grandi patrimoni ereditari come misura più mirata e accettabile socialmente. In quel caso, infatti, non si penalizza l’imprenditore in vita, ma si prende una quota consistente quando la ricchezza passa agli eredi (evitando così di colpire eventualmente l’attività produttiva in corso). Tassare pesantemente le eredità multimilionarie migliora la mobilità sociale senza scoraggiare investimenti. Ad esempio, Joe Biden negli USA e vari economisti in Europa preferiscono proporre una robusta estate tax sui super-ricchi piuttosto che patrimoniali annuali. L’OCSE stessa nel rapporto 2018 notava che dove esistono buone imposte di successione e capital gains, la patrimoniale netta risulta ridondante e distorsiva. Un ulteriore punto è che l’Italia già ha margine per ridurre l’evasione fiscale tradizionale prima di cercare nuove imposte: Carlo Cottarelli ha più volte evidenziato come recuperare anche solo una parte dei ~100 miliardi annui di evasione sarebbe ben più fruttuoso di una patrimoniale. In quest’ottica, rafforzare i controlli e digitalizzare il fisco potrebbe portare entrate aggiuntive strutturali superiori a quelle di una nuova tassa che colpisce pochi soggetti. Giorgia Meloni e il suo ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti insistono che la via preferibile è allargare la base imponibile (cioè far pagare chi oggi evade) e puntare sulla crescita per aumentare il gettito, piuttosto che introdurre nuovi tributi straordinari. Allargando lo sguardo, i critici evidenziano che la maggior parte dei Paesi avanzati ha eliminato le wealth tax generali negli ultimi 30 anni perché ritenute inefficienti e complicate per il poco che rendevano. Germania, Svezia, Olanda, Canada, Giappone, tutti avevano patrimoniali decenni fa e vi hanno rinunciato, preferendo altre forme di tassazione. In Svezia la tassa patrimoniale fu rimossa nel 2007 dopo aver calcolato che in alcuni casi il costo di compliance e i capitali persi superavano il gettito. In UK si discute se introdurla, ma il governo alla fine ha preferito aumentare l’imposta sui dividendi e ridurre esenzioni sulle plusvalenze (2022-23) perché misure più mirate. “Reuters” riporta anche come Gran Bretagna e Francia stiano riflettendo su come far pagare di più i ricchi per ridurre i deficit, ma gli esperti consiglino di guardare ad aliquote sui redditi da capitale e ai “trucchi” legali dei miliardari anziché a un’imposta patrimoniale piena. In Francia, ad esempio, Zucman propone la patrimoniale ma altri economisti (come Gollier e Levy su “Le Figaro”) hanno obiettato che non risolverebbe certo il problema del debito francese e che servono invece riforme strutturali. In Italia, analogamente, Antonio Misiani (responsabile economico PD) ha sottolineato che il governo Meloni ha già portato la pressione fiscale al massimo decennale (42,8% del PIL) e che sarebbe più utile redistribuire in altro modo, ad esempio, aumentando la tassazione delle rendite finanziarie e rendendo più progressiva l’aliquota sui redditi da capitale, piuttosto che insistere su una patrimoniale in senso stretto. Questo sarebbe politicamente più vendibile e concettualmente più solido (si tassa un flusso reddituale). I detrattori vedono poi un rischio: una volta introdotta una patrimoniale, potrebbe scattare la tentazione di aumentarla o abbassare le soglie per far cassa, finendo per colpire non solo i “paperoni” ma ad esempio chi ha un patrimonio di qualche centinaio di migliaia di euro (una casa di valore e un po’ di risparmi per la pensione). Ciò la trasformerebbe in una tassa sui ceti medi, con potenziale impopolarità e ingiustizia. Meglio allora non aprire quel vaso di Pandora e piuttosto perseguire i benestanti con le leve fiscali già esistenti. Serena Sileoni suggerisce di concentrare semmai l’attenzione su “tassare i proventi” della ricchezza: un ricco ha spesso grandi rendite finanziarie e immobiliari, si alzino quelle imposte (oggi, come ricordano i contrari, l’Italia tassa le rendite finanziarie al 26% e i canoni di locazione con cedolare 21%, aliquote ben inferiori a quelle IRPEF sui redditi medio-alti). Infine, c’è il concetto di costo politico: varare una patrimoniale è impopolare e polarizzante; i governi che l’hanno fatto (Hollande in Francia) ne hanno pagato il prezzo in termini di fuga di capitali e reazioni negative. Forse è più saggio ottenere risultati simili con misure meno clamorose ma efficaci: ad esempio, l’OCSE cita l’eliminazione delle esenzioni sulle plusvalenze immobiliari e la tassazione all’uscita per chi trasferisce residenza in un paradiso fiscale. Tali misure colpiscono proprio i super-ricchi che vogliono sfuggire, garantendo equità, e probabilmente incassando di più in un decennio di quanto farebbe una fugace patrimoniale nazionale. Dunque, la patrimoniale netta sarebbe un’arma spuntata: tanto rumore per poco risultato. Invece, conviene usare armi più affilate: tassare di più i redditi da capitale (perché lì c’è margine, essendo oggi favoriti), rafforzare le imposte di successione (così si colpiscono le rendite ereditarie senza scoraggiare l’attività in vita) e combattere seriamente evasione ed elusione (dove l’Italia ha da recuperare decine di miliardi). Così si centrerebbe l’obiettivo di far contribuire i benestanti al benessere comune, senza i controeffetti e le complicazioni che una patrimoniale comporterebbe.
Nina Celli, 20 novembre 2025