Qualora lo Stato ravvisasse realmente dei problemi, la risposta giusta non è punire i genitori togliendo loro i figli, ma aiutare la famiglia a colmare eventuali lacune. Non si vuole negare che si possa discutere su scuola o igiene, ma è necessario un approccio collaborativo invece che repressivo. I servizi sociali, dopo qualche tentativo burocratico andato a vuoto, hanno rapidamente imboccato la via legale conflittuale, “militarizzando” la questione (con sopralluoghi a sorpresa e Carabinieri al seguito). Questo ha esasperato la diffidenza dei genitori, innescando un circolo vizioso di incomunicabilità. La prof.ssa Bertotti evidenzia proprio il rischio di polarizzare le questioni in termini rigidi di giusto/sbagliato, creando il problema invece di risolverlo. Si sarebbe dovuto costruire un dialogo con Catherine e Nathan, per trovare compromessi rispettosi della loro filosofia di vita ma anche dei diritti dei bambini. E in effetti un accenno di compromesso c’è stato: la curatrice minorile avrebbe suggerito loro di ripristinare i bagni interni come condizione per lasciarli continuare il loro percorso. Questa proposta, pur rifiutata dalla madre, indica una via conciliativa: perché non insistere su soluzioni del genere? Magari con un mediatore o un educatore familiare che spieghi l’importanza di certe misure (come migliorare i servizi igienici per motivi sanitari) e allo stesso tempo rassicuri i genitori che non si vuole snaturare la loro libertà. Da questo punto di vista, l’affidamento coatto è l’ultimissima risorsa, da usare solo se i genitori si dimostrano totalmente negligenti o pericolosi – cosa che qui non è. Invece, affiancare la famiglia con competenze esterne potrebbe portare benefici concreti senza disgregare nulla. Per esempio, si poteva coinvolgere un’associazione di homeschooling/homesteading (come LAIF o simili) che conosce realtà analoghe e poteva mediare tra famiglia e istituzioni, certificando il percorso istruttivo dei bambini in modo alternativo ma conforme alla legge. I contrari ricordano anche che nessuno ha interpellato i bambini: che ne pensano? Come vivono loro questa situazione? Una valutazione psicologica indipendente dello stato emotivo dei minori sarebbe stata opportuna prima di arrivare a decidere del loro allontanamento. Se i bambini risultassero sereni, attaccati ai genitori e non impauriti dalla loro vita, separare una famiglia del genere appare crudele. Lo Stato esiste per aiutare i cittadini, non per perseguitarli. Quindi, se davvero l’obiettivo è il bene dei bambini, perché non portare acqua corrente al casolare, invece di portare via i bimbi? Perché non offrire alla famiglia supporto logistico (es. pannelli solari aggiuntivi, consulenze sanitarie periodiche) invece di smantellarla? Queste domande retoriche sottolineano che c’erano vie alternative all’azione punitiva. Si cita spesso il tema del “minore come ultima ratio”: i servizi dovevano lavorare con i genitori, non contro di loro, per migliorare la situazione. Si poteva prevedere un affiancamento temporaneo (ad esempio un tutore che supervisionasse l’educazione dei bambini restando però in famiglia). L’intervento deciso – l’affido esterno – appare invece come una soluzione “di testa”, burocratica, non “di cuore”. Un aspetto giuridico su cui i contrari fanno leva è che la sospensione/decadenza della responsabilità genitoriale non è una punizione per i genitori, ma una misura a favore del minore. Dunque, deve dimostrare di apportare un beneficio reale al minore. In questo caso, non c’è evidenza che allontanare i bambini migliori la loro condizione, anzi è probabile il contrario. Perciò la misura sarebbe giuridicamente inappropriata: non soddisfa il requisito del “superiore interesse” del minore, poiché quell’interesse coincide col restare con genitori amorevoli. Infine, i contrari spesso ampliano la riflessione a una dimensione politica e filosofica: che tipo di Stato vogliamo? Uno Stato etico che uniforma tutti, o uno Stato liberale che accetta anche le scelte minoritarie? La storia è piena di minoranze perseguitate in nome del bene dei bambini (si pensi ai figli degli indigeni nativi americani o australiani, strappati alle famiglie per “civilizzarli” in collegi – oggi quelle politiche sono riconosciute come errori atroci). I contrari invitano a non ripetere, in scala minore, quell’approccio: anche i genitori di Palmoli potrebbero dire di voler “civilizzare” i loro figli a modo loro, lontano dalla modernità corrotta. È un conflitto di visioni del mondo. Ma non può essere un giudice a decidere quale visione sia giusta. La famiglia nel bosco non va smembrata, va eventualmente accompagnata. Nessuno nega l’importanza della scuola e dell’igiene, ma si può lavorare per inserirle gradualmente nella vita della famiglia senza distruggerla. Togliere i figli sarebbe un rimedio sproporzionato e contrario ai diritti sia dei genitori che dei bambini. Meglio un compromesso sensato, come del resto auspicato dagli stessi giudici minorili più accorti, che spesso preferiscono soluzioni di sostegno familiare anziché affidi traumatici.
Madeleine Maresca, 15 novembre 2025