I critici del provvedimento parlano di “violenza di Stato” nel caso in cui i bambini venissero sottratti ai loro genitori. Tale espressione riflette l’idea che l’intervento forzoso dello Stato, in assenza di maltrattamenti, costituirebbe un abuso di potere peggiore del presunto problema che vorrebbe risolvere. Secondo questa tesi, può lo Stato arrogarsi il diritto di decidere come dev’essere la vita familiare di cittadini che non infrangono alcuna legge penale e non fanno del male a nessuno? La risposta dei contrari è no, non può. Si fa notare che il reato di “abuso dei mezzi di correzione” o di “maltrattamento in famiglia” qui non sussiste affatto: non c’è correzione violenta, non c’è crudeltà, non c’è sfruttamento minorile. Allora su che base giuridica concreta si pretende di intervenire? I contro fanno riferimento all’art. 30 della Costituzione, che afferma: “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”. Lo Stato può intervenire “quando i genitori non ne siano capaci”. Ebbene, in cosa questi genitori sarebbero “incapaci”? Hanno alimentato e cresciuto tre bambini sani, insegnando loro a leggere, fornendo un tetto (per quanto modesto) e protezione. Non li hanno abbandonati in un bosco a loro stessi. La Procura parla di “preziose carenze di socializzazione e igiene”, ma i contrari replicano che tali concetti sono valutazioni soggettive: chi stabilisce quale grado di socializzazione sia “giusto”? Ci sono bambini cittadini iperconnessi ma soli e depressi; viceversa, bambini cresciuti in comunità alternative molto coese che diventano adulti equilibrati. Allo stesso modo, vivere in una casa senza comfort non equivale automaticamente a ledere i diritti dei figli, se quei figli vengono comunque mantenuti puliti e accuditi. Ci sono milioni di persone nel mondo che vivono senza elettricità o acqua corrente: i loro genitori dovrebbero perdere per questo la patria potestà? Si ravvede un sottofondo di classismo e di etnocentrismo culturale nell’atteggiamento istituzionale: sembra che si dica “o vivi come la classe media occidentale con scuola, pediatra e bagno piastrellato, oppure sei un genitore indegno”. Ma la diversità culturale e socioeconomica non può essere di per sé motivo di rimozione dei figli. Per rafforzare il punto, i contrari citano i casi di minoranze come i nomadi sinti o certe comunità rurali isolate: “lo Stato porta via i figli a tutti i pastori che vivono in montagna senza internet?”. Ovviamente no. Allora perché accanirsi su questa famiglia? Ritengono ci sia una componente di pregiudizio verso l’ignoto: l’idea di bambini fuori dal controllo delle istituzioni spaventa e si reagisce con misure punitive a prescindere dai reali bisogni di quei bambini. Molti commentatori sostengono che i servizi sociali e i giudici minorili, una volta entrati in gioco, abbiano un bias istituzionale: tendono, cioè, a ipotizzare problemi anche dove forse non ce ne sono, pur di giustificare il proprio intervento. Un’ulteriore linea argomentativa dei contrari è il concetto di “danno minore”: supponendo anche che qualche carenza in quella vita nel bosco ci sia, la soluzione proposta (allontanare i bimbi) causerebbe un danno enormemente maggiore. Varie ricerche mostrano che i traumi da separazione familiare possono lasciare cicatrici per tutta la vita sui minori (ansia di abbandono, insicurezze, depressione). Allora, si chiedono i contrari, vale la pena strappare questi tre bambini dal loro mondo per dar loro in cambio luce elettrica e scuola, ma al prezzo di perdere la famiglia? La risposta è no: sarebbe una cura peggiore del male. Anche dal lato educativo, separare i fratellini e inserirli di colpo in un contesto istituzionale potrebbe rivelarsi disastroso: bambini che non hanno mai vissuto in città, che parlano forse inglese in casa come prima lingua, buttati in un collegio o affido, rischierebbero choc culturali e regressioni emotive. I contrari suggeriscono che, se davvero l’obiettivo è il benessere dei minori, lo Stato dovrebbe semmai fornire aiuti “sul posto”, ad esempio inviando insegnanti itineranti o portando la famiglia in comunità resilienti simili (ci sono progetti di “outdoor education” che potrebbero fare al caso loro). Ma mai recidere il legame genitoriale. Il sentimento di fondo, espresso vividamente da molti sui social, è che si stia punendo questa famiglia solo perché “diversa” e ciò appare come intolleranza istituzionale. Non a caso la vicenda ha sollevato un’ondata di solidarietà: la “famiglia nel bosco” è diventata virale. A loro sostegno, è stata lanciata una petizione su charge.org: una raccolta firme per tutelare la libera scelta della famiglia di Vasto. Sono, dunque, assurti a simbolo di resistenza al conformismo. Tanti commenti elogiano il loro coraggio e contestano allo Stato di volerli punire perché “non sopporta chi esce dagli schemi”. Questa cornice narrativa è significativa: viene presentata come una sorta di “lotta di Davide contro Golia”, del singolo contro l’apparato. Catherine e Nathan sono due persone pacifiche che vogliono solo vivere la loro vita isolata: se la modernità li “stanca” e li “avvelena”, come hanno dichiarato, è un loro diritto rifugiarsi altrove. Chi può impedirglielo? E perché costringere i loro figli a rientrare in quella società che i genitori percepiscono ostile? Non hanno forse anche i minori il diritto a un ambiente sano, aria pulita e cibo genuino? I contrari ribaltano così la retorica: invece di pensare ai possibili svantaggi (niente scuola convenzionale), guardiamo i vantaggi: quei bambini sono lontani da inquinamento, droghe, violenza urbana, pornografia online, consumismo. Giocano con animali veri invece che con tablet. Qualcuno li paragona ai protagonisti di Captain Fantastic, film citato anche da “Il Centro”, in cui un padre cresce i figli nei boschi come filosofi-guerrieri in armonia con la natura. È davvero così sbagliato? – chiedono. Non potrebbero anzi rappresentare un modello alternativo di successo? In Alto Adige, ad esempio, l’homeschooling e le “classi nel bosco” sono quasi un vanto locale. I contrari all’intervento sottolineano inoltre l’ipocrisia del sistema: per decenni lo Stato non è riuscito a evitare situazioni di degrado vero, a partire dagli orfanotrofi lager o dagli affidi illeciti (vedi il caso di Bibbiano). Adesso, con questa famiglia, sembra voler dimostrare efficienza calando la mannaia su persone che non hanno lobby o protezioni. È un accanimento facile, a scapito dei bambini. Monica Macchioni, ad esempio, insinua che “lo Stato lascia i bimbi nelle ’ndrine” (in famiglie mafiose) e vuole portarli via ai “naturalisti”: assurdo. Questo argomento moralmente colpisce l’opinione pubblica, perché dipinge lo Stato come forte coi deboli e debole coi forti. I contrari sostengono che i servizi sociali dovrebbero occuparsi di bimbi maltrattati veri (e ce ne sono purtroppo tanti) invece di “perseguitare” un nucleo amorevole e indipendente. C’è infine un aspetto giuridico sollevato: la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia prevede il diritto del bambino a non essere separato dai genitori contro la sua volontà, salvo necessità assolute. Chi può dire che questi bambini desiderino essere “salvati” dalla loro vita nel bosco? Probabilmente ne sarebbero terrorizzati e distrutti. Pertanto, i contrari concludono che l’intervento statale non è solo inutile ma dannoso. Invece di aiutare, creerebbe un problema dove non c’era: famiglie distrutte, bambini traumatizzati, genitori disperati. Tutto ciò per imporre standard che, seppur raccomandabili, non possono essere assoluti. “Libertà significa anche tollerare ciò che non comprendiamo appieno” – dicono. E se per qualcuno libertà vuol dire vivere senza luce elettrica in un bosco, lo Stato dovrebbe accettarlo, purché non vi siano violazioni evidenti di legge (e qui non ce ne sono). Per tutte queste ragioni, togliere la patria potestà ai genitori del bosco sarebbe profondamente sbagliato.
Madeleine Maresca, 15 novembre 2025