Chi si oppone fermamente alla sottrazione dei figli vede in questa vicenda un pericoloso attacco alla libertà individuale e alla diversità di modelli familiari. La tesi contro la rimozione della potestà genitoriale parte dal principio che lo Stato non può e non deve imporre un unico modo di vivere e di educare. In una società libera, i genitori hanno il diritto costituzionale di allevare i figli secondo i propri valori e visioni del mondo (entro limiti molto ampi), e i bambini hanno il diritto di crescere nella propria famiglia salvo situazioni gravissime (maltrattamenti, abusi). Nel caso di Palmoli, non c’è stata alcuna violenza, abuso o sfruttamento: i bambini non risultano affamati, né picchiati, né coinvolti in attività criminali. Al contrario, appaiono accuditi con amore, liberi e felici nella loro quotidianità semplice a contatto con la natura. Punire questa famiglia togliendole i figli equivarrebbe a punire una “colpa” che non è tale: vivere in modo non convenzionale e fuori dal consumismo. Si tratterebbe di un’ingerenza inaccettabile dello Stato nella sfera privata, una violazione di quel pluralismo di stili di vita che una democrazia deve invece tutelare. Gli oppositori citano casi analoghi in cui le autorità hanno rispettato scelte educative non mainstream: ad esempio le comunità che praticano homeschooling e pedagogie alternative (Montessori, Steiner ecc.), o famiglie nomadi che seguono carriere circensi. Finché i bambini non subiscono danni oggettivi, lo Stato dovrebbe mantenere un atteggiamento di vigilanza passiva, non repressiva. Nel dibattito, l’editorialista Elisabetta Ambrosi ha sostenuto esplicitamente di “stare dalla parte” della famiglia del bosco proprio perché vede attorno a loro “pregiudizi sociali” verso scelte di vita sostenibili e fuori dagli schemi. Secondo questa prospettiva, le istituzioni – condizionate da stereotipi – starebbero trattando come “famiglia problematica” quella che è invece una famiglia consapevole, colpevole solo di mettere in discussione la normalità consumistica. In altre parole, si rischia una deriva paternalista o addirittura autoritaria: lo Stato che decide al posto tuo come devi crescere i figli. Questo è molto più pericoloso di qualche lezione scolastica persa. Un argomento cardine è che i bambini stanno bene e non sono affatto “abbandonati”. Le relazioni stesse dei servizi sociali non riportano segni di malnutrizione, malattie non curate o disagio psicologico nei minori. Anzi, il legale ha riferito che i piccoli “sono in perfette condizioni psico-fisiche, godono di ottima salute”. Vengono seguiti da una pediatra di fiducia e assegnati al SSN, contrariamente a quanto si pensava inizialmente. La stessa Procura, nel disporre il monitoraggio, ha lasciato i bambini con i genitori, riconoscendo implicitamente che non c’era un pericolo imminente per la loro incolumità. Se davvero i genitori ledessero i diritti dei figli, il Tribunale avrebbe tolto subito i minori, invece sono ancora lì. Ciò dimostra che siamo lontani da situazioni di abuso o incuria conclamata che richiedono interventi d’emergenza. Un’altra linea di difesa è l’effettiva cura educativa che i genitori stanno fornendo: i detrattori dell’intervento ricordano che la figlia maggiore ha superato un esame di idoneità scolastica (per la terza elementare), segno che l’istruzione parentale sta dando risultati concreti. La famiglia produce di anno in anno la documentazione necessaria (come i certificati di esame e i piani di studio), quindi non sta violando consapevolmente la legge: al più, c’è un dibattito su quanto unschooling facciano e quanto homeschooling formale integrino. Inoltre, i genitori sostengono – e le fonti giornalistiche lo confermano – che i bambini socializzano: giocano all’aperto, conoscono altri bambini (ad esempio figli di vicini o di amici quando capita) e non sono prigionieri in casa. “Open” ha riportato che usano i telefoni dei genitori per sentire i parenti all’estero e che fanno lezioni settimanali con una maestra dal Molise. Questi elementi indicano che, contrariamente all’immagine di “bimbi selvaggi e isolati” dipinta da alcuni, in realtà i piccoli hanno contatti col mondo esterno e figure educative supplementari. I contrari all’affido fuori famiglia chiedono: perché strappare dei bambini felici dal loro ambiente familiare, che magari è rustico ma è l’unico che conoscono e amano? Secondo loro, trasferirli altrove sarebbe un trauma ingiustificato. Le testimonianze dei genitori – per quanto di parte – ritraggono bimbi sereni che corrono nei boschi, conoscono piante e animali, imparano in modo esperienziale e vivono lontani da schermi e stress. Non è forse questo un ambiente sano? – chiedono i sostenitori. Dal loro punto di vista, la società moderna è spesso tossica (inquinamento, alienazione digitale, bullismo scolastico, cibo spazzatura) e dunque crescere “come una volta” può avere molti benefici. L’avvocato difensore ha parlato di “gentiluomini della natura” riferendosi ai bambini, e i contrari concordano sul fatto che questi piccoli non sono affatto poveri disadattati, ma “bimbi liberi, compassionevoli, connessi, creativi e intelligenti” proprio perché non repressi dal sistema. Un aspetto su cui battono i sostenitori di questo diverso modello di famiglia è quello della disparità di trattamento e ipocrisia istituzionale. Monica Macchioni su “Il Graffio” ha polemicamente chiesto come mai lo Stato se la prenda con questa famiglia “senza violenza né droghe” e non invece con le situazioni ben peggiori di minori in mano alla malavita o al degrado urbano. Secondo i contrari, è più facile per i servizi sociali e la magistratura intervenire in un caso eclatante mediaticamente – ma di fatto composto da persone perbene e cooperative – che affrontare problemi endemici come i bambini di camorra o quelli sfruttati per accattonaggio. Questa critica vuole evidenziare un accanimento ingiusto: si rischia di punire chi non ha fatto del male a nessuno, mentre altrove veri orrori proseguono indisturbati. Inoltre, molti commentatori sottolineano che i genitori di Vasto hanno risorse economiche e culturali: sono persone adulte e responsabili, non “borderline” né incapaci di intendere, come ha ribadito anche il loro legale. Dunque, insinuare che non sappiano cosa è bene per i propri figli è quasi offensivo. Hanno scelto l’Italia come luogo dove vivere e ora vengono trattati come criminali. Un utente sul web ha scritto indignato che “portare via i bambini sarebbe un atto di violenza dello Stato” peggiore di quella inflitta dai peggiori clan. I contro spingono molto su questo: sottrarre i figli a genitori amorevoli è un atto traumatico e innaturale che solo situazioni estreme giustificano. Farlo in questo caso provocherebbe ai bambini un danno psicologico enorme: perderebbero di colpo mamma e papà, la loro casa (per quanto modesta) e tutto ciò che conoscono, finendo magari in comunità o famiglie affidatarie estranee. La retorica utilizzata è forte: si parla di “rapimento legalizzato”, di “spezzare un nucleo familiare” senza un vero motivo. I contrari ricordano che i bambini sono felici e sorridenti con i genitori, come testimoniato anche dalle immagini mandate in onda da trasmissioni televisive (es. La Vita in Diretta ha intervistato la famiglia mostrando la loro quotidianità serena). Non c’è niente da “salvare”: separarli costituirebbe l’unica vera violenza in questa storia. Quanto all’istruzione e alla socialità, i contro ribattono che ci sono tante esperienze di educazione parentale di successo: la provincia autonoma di Bolzano, per esempio, ha un consolidato sistema di “classi nei boschi” e homeschooling diffuso, senza che nessuno si opponga. Ogni anno migliaia di famiglie in Italia praticano l’istruzione parentale (triplicate durante la pandemia), e non per questo lo Stato toglie loro i figli. Perché allora accanirsi su questa famiglia? Probabilmente – insinuano – perché sono “stranieri” e non ben inseriti nel tessuto sociale, quindi facili da prendere di mira. C’è anche chi vede in questa vicenda un riflesso di intolleranza verso gli stili di vita ecologisti: Catherine e Nathan stanno dimostrando che si può vivere con poco, senza consumismo, e questo è scomodo in una società costruita sui consumi. La stessa Ambrosi evidenzia il tema della scelta di vita sostenibile: pannelli solari, autoproduzione, niente smartphone – invece di essere apprezzati come pionieri “green”, vengono guardati con sospetto e puniti. Per i contrari, la famiglia del bosco è quasi un simbolo di libertà contro omologazione. Se li costringiamo a rientrare nei ranghi, quale messaggio diamo? – chiedono retoricamente. Un altro elemento portato in difesa dei genitori è la loro buona fede e cooperatività su molti fronti: non hanno mai maltrattato i funzionari né fatto resistenza violenta, hanno solo paura di perdere i figli e per questo si sono chiusi. Ma quando è stato necessario hanno fornito certificati medici e perizie per attestare di stare adempiendo ai loro doveri. Hanno anche istituito un trust privato per proteggere la prole da interventi esterni – gesto estremo che però denota quanto tengano ai loro figli. I detrattori dell’intervento suggeriscono che lo Stato, anziché puntare subito alla soluzione drastica, avrebbe potuto accompagnare la famiglia con un approccio rispettoso: fornire sostegno pedagogico leggero, magari un educatore che andasse a trovarli periodicamente per aiutare i bambini in qualche materia, o un mediatore che li aiutasse a interagire con altri homeschooler. Invece si è scelta la via giudiziaria, percepita come aggressiva. Lo Stato dovrebbe garantire pluralismo e tolleranza: se una famiglia sceglie un cammino educativo diverso ma non nocivo, andrebbe semmai monitorata e, se possibile, supportata, non demolita. Il concetto di “superiore interesse del minore” viene letto diversamente dai contrari: per loro l’interesse dei bambini è rimanere con i propri genitori, crescere nell’amore familiare che già hanno, evitando traumi di separazione che li segnerebbero a vita. Quale pregiudizio può mai essere più grave di essere tolti a mamma e papà senza aver subito alcun abuso? – domandano. Molti citano casi di errori giudiziari (affidi illeciti) che hanno devastato famiglie innocenti; c’è il timore di un nuovo “caso Bibbiano”, dove un eccesso di zelo si traduca in ingiustizia. La famiglia del bosco dovrebbe essere lasciata in pace, eventualmente concordando qualche compromesso ragionevole (ad esempio controlli sanitari periodici, iscrizione formale a una scuola per gli esami annuali) ma senza misure coercitive. Intervenire brutalmente violerebbe i diritti umani fondamentali: quello dei genitori di educare i figli e quello dei bambini di non essere strappati dalla propria famiglia. In definitiva, il caso Palmoli non ha nulla che giustifichi una punizione così severa. La frase ricorrente è “non stiamo parlando di genitori orchi”, ma di madre e padre che amano i loro figli e vogliono il meglio per loro, pur con idee controcorrente. In una democrazia matura, c’è spazio anche per questa diversità. Togliere i bambini equivarrebbe a dire che lo Stato non tollera chi non si conforma, instaurando un precedente allarmante per la libertà di tutti.
Madeleine Maresca, 15 novembre 2025