Secondo il parere di alcuni esperti, focalizzarsi unicamente sull’aumento delle nascite rischia di distogliere l’attenzione da altre leve demografiche e strategie complementari necessarie ad affrontare il problema. Per stabilizzare la popolazione e l’economia l’Italia si deve guardare oltre la sola natalità, integrando politiche migratorie, riforme del lavoro e innovazione tecnologica. In primo luogo, si evidenzia il ruolo cruciale dell’immigrazione. Negli ultimi vent’anni, l’unica ragione per cui la popolazione italiana non è già crollata è stato il saldo migratorio positivo: abbiamo compensato i pochi nati con l’arrivo di giovani dall’estero. Un’analisi del Pew Research citata da “Avvenire” stima che dal 2000 al 2020 gli immigrati abbiano contribuito per +2,7 milioni di residenti, evitando un declino più marcato. Chi minimizza l’immigrazione sbaglia bersaglio: invece di considerarla un’invasione, bisognerebbe governarla attivamente come risorsa demografica. L’articolo de “Il Fatto Quotidiano” del 23 ottobre 2025 riporta che “per l’Italia, dove il deficit riproduttivo è acuto, l’unico fattore che contrasta il declino totale è il saldo migratorio netto”. Senza immigrati, il calo di popolazione sarebbe ancora più drammatico (in Italia anche le seconde generazioni adottano presto i bassi livelli di fecondità locali). Dunque, affermano i critici, non si può fare a meno di una politica migratoria lungimirante. Ciò significa facilitare l’ingresso e l’integrazione di giovani lavoratori stranieri, magari puntando ad attrarre famiglie intere (come suggerisce Gigi De Palo con l’idea di “ius familiae”). Immigrati con famiglia sono più propensi a stabilirsi a lungo termine, contribuendo sia come forza lavoro sia con i propri figli (attuali o futuri) alla demografia italiana. Eppure, finora l’approccio è stato emergenziale o ideologico: si è discusso di ius soli o ius scholae per i figli di immigrati in termini di diritti civili, ma raramente l’immigrazione è stata integrata in una strategia demografica. I contrari vedono questo come un grave errore: l’Italia ha bisogno di stranieri per compensare i vuoti generazionali e servono politiche attive per selezionare, formare e trattenere questi nuovi italiani. Un recente studio dell’Osservatorio CPI ha stimato che, per mantenere stabile la popolazione in età lavorativa, l’Italia dovrebbe portare a circa 300-500 mila ingressi netti annui di immigrati per molti anni. Numeri politicamente delicati, ma che danno l’idea della dimensione. Ovviamente, l’immigrazione da sola “non è la soluzione miracolosa” – come titola l’intervista a Blangiardo – perché anch’essa ha limiti (non puoi importare milioni di persone ogni anno senza problemi di integrazione). Tuttavia, è comunque una parte della soluzione. Gian Carlo Blangiardo, pur essendo favorevole alle politiche nataliste, ammette che bisogna “agire su una componente migratoria adeguata, opportunamente governata, per frenare la diminuzione della popolazione”. In parallelo, c’è il tema dell’emigrazione giovanile: ogni anno decine di migliaia di italiani, spesso qualificati, emigrano all’estero (191 mila espatri totali nel 2024, di cui 156 mila cittadini italiani). Questo è un doppio danno: riduce i potenziali genitori e disperde investimenti formativi. I contrari alzano quindi lo sguardo: per loro il dibattito non va confinato a “come far fare più figli alle coppie italiane”, ma esteso a “come rendere l’Italia un paese dove i giovani vogliono vivere e mettere su famiglia”. Ciò chiama in causa riforme socioeconomiche ampie: creare lavoro qualificato al Sud per frenare la “fuga di cervelli”, alzare i salari d’ingresso (il governo è criticato per aver ignorato misure come il salario minimo), migliorare i servizi pubblici (scuola, sanità) su tutto il territorio. In assenza di queste condizioni, anche generosi bonus figli rischiano di avere poco effetto: se un giovane vede prospettive grigie in Italia, sarà tentato di andare all’estero prima di pensare a procreare. Alcuni commentatori definiscono il calo nascite come sintomo di un malessere più ampio: stagnazione economica, precarietà, sfiducia nel futuro. Chiara Saraceno nota, ad esempio, che l’Italia è ossessionata da dibattiti sulla natalità ma non affronta realmente il nodo del benessere delle famiglie giovani. Da qui la provocazione: prima creiamo un paese migliore per i giovani (lavoro stabile, case accessibili, welfare degno di un paese avanzato), poi i figli arriveranno. In sostanza, i contrari non negano l’utilità di riformare il welfare, ma ritengono limitante farne l’unica leva. Inoltre, mettono in guardia da derive moralistiche: una politica demografica deve rispettare le libertà individuali. Non si può (né si deve) “convincere” le donne ad avere più figli tornando a modelli tradizionali. Alcune proposte di esponenti governativi – come incentivi alle mamme casalinghe o campagne retoriche sulla “gioia della maternità” – sono viste come passi falsi: il “Financial Times” evidenzia che il governo Meloni tende a incentivare le donne a stare a casa invece di facilitare la conciliazione. Questo approccio, secondo i contrari, è controproducente: rischia di alienare ancora di più le donne moderne, che percepiscono la spinta a procreare come un attacco alla propria emancipazione. Jennifer Guerra e altre commentatrici femministe hanno accusato certa retorica natalista di strumentalizzare il corpo femminile, invocando piuttosto politiche che rendano la scelta dei figli davvero libera e non penalizzante. Dunque, fermarsi alla riforma del welfare per stimolare le nascite è una strategia monca. Servono una visione complessiva e interventi su più fronti: un piano demografico a 360 gradi in cui la natalità è solo uno dei pilastri, accanto a immigrazione, mercato del lavoro, innovazione. Ad esempio, si parla anche di soluzioni “tecnologiche”: in prospettiva, la carenza di giovani lavoratori potrebbe in parte essere compensata da robotica e intelligenza artificiale (già oggi in Giappone sperano che i robot aiutino a prendersi cura degli anziani e a mantenere la produttività). Non che le macchine possano risolvere il problema umano, ma l’economia potrebbe adattarsi con l’aumento della produttività e l’automazione, riducendo l’impatto negativo della popolazione in calo. Del resto, notano alcuni, una popolazione leggermente più bassa non è di per sé una tragedia: in un pianeta con risorse limitate, molti studiosi mondiali discutono di “crescita zero” come obiettivo di sostenibilità. L’Italia sta andando in quella direzione per dinamiche interne; la sfida è gestire la transizione demografica minimizzando i danni. Se, con le riforme del welfare, tornassimo a 450 mila nati l’anno (scenario ottimistico), avremmo comunque più morti che nati per decenni, quindi il declino numerico proseguirebbe. Dobbiamo allora puntare a tenere viva l’economia e la società con meno persone, attraverso innovazioni di sistema. Quindi, il welfare pro-natalità va sì migliorato (nessuno nega che servano più nidi o sostegni alle famiglie), ma non va venduto come la panacea demografica. Occorre parallelamente aprire canali migratori, integrare gli stranieri (anche concedendo cittadinanze più rapide ai loro figli per trattenerli), e adattare il nostro modello di sviluppo. Fermare il declino demografico è probabilmente impossibile, ma possiamo governarlo con un mix di misure: un po’ più di nascite grazie al welfare (senza aspettarsi miracoli), molta più apertura all’immigrazione e incisive riforme interne per rendere l’Italia attrattiva per giovani di ogni provenienza. Solo così l’impatto dell’inverno demografico potrà essere mitigato e l’Italia potrà trovare un nuovo equilibrio sostenibile.
Nina Celli, 8 novembre 2025