Molti esperti sono scettici circa l’idea di fermare il declino demografico solo con la riforma del welfare, ritenendo che le cause della denatalità siano profonde e in parte irreversibili. Pertanto, le politiche sociali, pur necessarie, non garantirebbero il ritorno a una popolazione in crescita. Innanzitutto, fanno notare i critici, l’Italia è “entrata in crisi demografica nel 1984”, quando la fecondità è scesa sotto 1,5 figli per donna e non è mai più risalita. In pratica, da oltre 40 anni si fanno troppo pochi figli: ciò ha già provocato una drastica riduzione delle giovani generazioni. Alessandro Rosina parla di “crollo dei genitori”: oggi ci sono molte meno coppie in età fertile di quante ce ne fossero ai tempi del “baby boom”. Questo significa che, anche se improvvisamente ogni donna decidesse di avere 2 o 3 figli, il numero totale di nascite resterebbe modesto perché ci sono meno potenziali madri. Si cita un dato incontrovertibile: nel 2024 in Italia c’erano circa 22 milioni di persone fra 15 e 49 anni (età riproduttiva), contro oltre 30 milioni nel 1980. Con tali basi ristrette, è matematicamente impossibile tornare ai livelli di nascite di allora. Inoltre, l’età media alla maternità è salita oltre i 32 anni, ciò implica che molte donne hanno tempo al massimo per 1 figlio, difficilmente 2 o più. Su queste tendenze strutturali le politiche possono incidere solo marginalmente. Un esempio usato dai critici è quello dell’Ungheria: il governo Orbán ha investito massicciamente (circa il 5% del PIL) dal 2010 per stimolare la natalità, vantando un aumento del TFR da 1,25 a 1,6. Ma studi demografici hanno mostrato che il numero di nati l’anno è rimasto fermo intorno a 90-95mila, perché in parallelo calavano le donne in età fertile e si posticipava meno la gravidanza (gonfiando il TFR temporaneamente). Anche in Italia, se oggi varassimo tutti gli incentivi possibili, non vedremmo un boom demografico: al più un rimbalzo modesto da 1,2 a 1,4 figli per donna nei prossimi 10 anni. Questo sarebbe un miglioramento benvenuto ma non sufficiente a evitare lo squilibrio generazionale. Come ammettono anche fonti pro-natalità, servirebbe tornare stabilmente sopra 2 figli per donna per assicurare il ricambio generazionale – un livello che non si registra da metà anni ’70. Neanche la Francia o la Svezia oggi raggiungono 2,1. Dunque, secondo i critici, promettere di “fermare il declino demografico” è illusorio, perché implica far crescere di molto la popolazione giovanile, cosa fuori portata con le sole nascite interne. Alcuni avanzano un parallelo storico: il fascismo negli anni ’20-’30 tentò con vigore di aumentare la popolazione (target 60 milioni di italiani) ma fallì. Anzi, il tasso di natalità continuò a diminuire durante il regime. Non bastarono premi in denaro alle madri prolifiche né la retorica della “Donna madre e moglie”, le dinamiche socioeconomiche (urbanizzazione, transizione culturale) erano più forti della propaganda. Questo esempio storico (analizzato da Roberto Volpi) indica che forzare la mano sulla natalità può non dare i frutti sperati. Non si vuol certo sostenere che le riforme sul welfare siano inutili, ma vuole mettere in guardia sulle attese eccessive. Anche i paesi virtuosi oggi sono in difficoltà: la Francia stessa ha visto un forte calo di nascite nel 2022-2023, nonostante il suo famoso welfare. Ciò suggerisce che fattori culturali e globali (insicurezza economica, individualismo, cambio di valori) stanno spingendo in basso la natalità ovunque nel mondo sviluppato. L’Italia, poi, soffre di un aggravante: ha accumulato un notevole ritardo. Negli anni ’90-2000 avrebbe potuto investire di più sulle famiglie (come fece la Francia o la stessa Germania nei 2000), ma non l’ha fatto, e nel frattempo la struttura demografica è peggiorata. Oggi si cerca di recuperare, ma “il momento è ora arrivato”, in cui le generazioni numerose del passato sono anziane e quelle ridotte entrano nell’età fertile, consolidando il circolo vizioso. Dal 2020 in poi si nota un ulteriore calo di fecondità in Italia, persino tra le immigrate (tradizionalmente più prolifiche). Ciò indica che c’è qualcosa di più profondo di una semplice mancanza di aiuti: è cambiata la società. Alcuni giovani adulti vedono il futuro incerto (clima, lavoro, guerre) e scelgono consapevolmente di non avere figli o di farne solo uno, per preferenze personali o timori per la qualità della vita dei figli stessi. Questo fenomeno, difficile da quantificare, è però emerso in sondaggi e studi qualitativi: l’idea di famiglia numerosa è molto meno comune che in passato. In Giappone si parla di “sindrome del nido vuoto” volontaria; in Italia qualcosa di analogo potrebbe radicarsi. Amy Kazmin sul “Financial Times” sottolinea l’indifferenza o l’inerzia di molti attori: persino istituzioni che potrebbero facilitare la vita dei genitori (come l’ospedale di Padova che rifiuta l’asilo aziendale) non colgono l’urgenza. È un problema di mentalità diffusa, non solo di fondi. Infine, alcuni avvertono che anche qualora le politiche avessero effetto, i risultati sarebbero lenti: un bambino nato oggi entrerà nel mondo del lavoro tra 20-25 anni; nell’immediato quel bambino è un “costo” (per la famiglia e per lo Stato in termini di servizi). Quindi c’è un paradosso: si investe oggi in maggior spesa pubblica (asili, bonus, congedi) e in più a breve termine i giovani produttivi saranno ancora meno (perché molte donne potrebbero uscire temporaneamente dal lavoro per i nuovi figli), mentre i pensionati aumentano. La fase di transizione sarebbe comunque critica per il welfare state, e richiede volontà politica di sostenere costi subito per benefici molto differiti. Non tutti i governi, però, riescono a pensare su orizzonti di decenni. La riforma del welfare da sola, dunque, non potrà fermare il declino demografico. Può al massimo mitigarlo leggermente, ritardando l’inevitabile riduzione della popolazione. La struttura demografica italiana (piramide rovesciata) è il risultato di decenni di bassa natalità che non si correggono in pochi anni di politiche, per quanto buone. Bisogna essere realisti sulla portata delle misure: nessun paese ha “riportato indietro l’orologio demografico”. Questo non significa rinunciare a migliorare il welfare, ma riconoscere che esso inciderà in misura limitata sui trend di lungo periodo. Una frase emblematica è quella dei demografi Lutz, Sobotka e Zeman: la spesa enorme dell’Ungheria ha prodotto “un terzo di figlio in più per donna” in dieci anni, ma quasi zero nascite aggiuntive in termini assoluti. Per l’Italia, nel migliore dei casi, i critici prevedono scenari simili: qualche decimo di punto di TFR guadagnato, che però non eviterà un calo della popolazione (solo lo attenuerà leggermente). Il declino demografico è dunque da considerarsi in gran parte inevitabile e le politiche dovrebbero concentrarsi anche sull’adattamento a questa realtà.
Nina Celli, 8 novembre 2025