Gli oppositori dell’idea di conferire il Nobel per la Pace a Donald Trump sostengono che farlo equivarrebbe a snaturare e politicizzare profondamente il prestigioso riconoscimento, oltre a premiare meriti assai discutibili. Al centro di questa tesi c’è la convinzione che Trump non incarni i valori di pace, cooperazione e rispetto universale che dovrebbero contraddistinguere un Nobel per la Pace. Anzi, rappresenterebbe quasi l’antitesi: un leader polarizzante e spregiudicato, il cui modus operandi confligge con la filosofia del premio. In primo luogo, i critici affermano che la pace vantata da Trump è parziale e transitoria, non il risultato compiuto di un processo di riconciliazione. Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, pur positivo, viene descritto come fragile, imposto dall’alto e privo di una reale riconciliazione tra le parti. Non è frutto di una maturata volontà di pace, ma di circostanze contingenti e pressioni esterne. Questa differenza è fondamentale: la pace di Nobel dovrebbe essere sostenibile e radicata, non un armistizio precario. Un’analogia storica evocata dai detrattori è il parallelo con l’accordo di Parigi 1973 per il Vietnam. All’epoca il Nobel fu assegnato a Kissinger e Lê Đức Thọ per quell’accordo – un cessate il fuoco che prometteva pace – ma in breve tempo si rivelò un fallimento, con la guerra ripresa più feroce di prima. Lê Đức Thọ rifiutò persino il premio, definendolo una farsa poiché la pace non era reale. Molti temono che un Nobel a Trump rischierebbe una simile farsesca prematurità: se domani gli scontri a Gaza riprendessero (eventualità tutt’altro che remota), il premio apparirebbe grottesco. I critici ricordano che il Nobel ha già subito critiche per premiazioni avventate – emblematico il caso di Obama nel 2009, premiato “sulla parola” dopo pochi mesi di presidenza. Lo stesso Obama, anni dopo, ammise umilmente: “non credo di averlo meritato… almeno non ancora”, facendo capire che il premio giunse prima dei risultati. Nel caso di Trump, la situazione sarebbe persino più problematica: non solo la pace non è consolidata, ma il personaggio in questione è attivamente divisivo e controverso. Se il Comitato Nobel vuole evitare di compromettere la sua credibilità, dovrebbe guardare ai risultati a lungo termine: e finora, sostengono i detrattori, nessuna delle iniziative di Trump ha prodotto una pace duratura. L’accordo di Gaza è solo alla “fase uno” su più fasi, con tantissime incognite (disarmo di Hamas, controllo di Gaza, finanziamenti) ancora aperte. Gli stessi funzionari americani ammettono che “la strada è tutta in salita” e che l’accordo è fragile. Premiare Trump ora equivarrebbe, secondo loro, a premiare un cantiere aperto. Un editoriale del “Financial Times” (ipotetico, non citato ma in linea con queste posizioni) sottolineerebbe che il Nobel non dovrebbe essere un incentivo politico o un incoraggiamento, bensì un riconoscimento di risultati già ottenuti. Se il risultato è incerto, il premio è immotivato. Il Nobel per la Pace non è un premio politico neutro: è carico di significato morale. Consegnarlo a Trump significherebbe – dal punto di vista dei critici – legittimare comportamenti e idee in conflitto con i principi della pace e dei diritti umani. Si elencano vari punti oscuri: Trump ha mostrato ripetutamente disprezzo per la diplomazia multilaterale e per gli organismi internazionali, preferendo rapporti bilaterali di forza. Ha tagliato i fondi all’UNRWA (l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) nel 2018, aggravando la crisi umanitaria nei territori occupati. Ha ritirato gli Stati Uniti dal Consiglio ONU per i Diritti Umani e dall’UNESCO, isolandosi dalla comunità globale. Ha negato la scienza del clima, ritirandosi dagli accordi climatici, minando uno sforzo collettivo mondiale per la sicurezza futura. Inoltre, viene ricordato come Trump abbia demonizzato intere categorie e minoranze, alimentando tensioni: la sua retorica contro i musulmani (il “Muslim Ban” del 2017), i migranti latinoamericani (definiti “stupratori” e “criminali”), i cinesi (con toni bellicosi durante la pandemia) ha accentuato conflitti sociali e razziali. Queste non sono esattamente le credenziali di un costruttore di pace universale. Al contrario, segnalano una visione conflittuale del mondo (“noi vs loro”) incompatibile con l’ideale di fratellanza tra i popoli sancito da Nobel. Inoltre, il contesto legale e democratico in cui Trump si muove non può essere ignorato: è un ex presidente (e futuro candidato) imputato in varie cause penali gravi, tra cui cospirazione contro la democrazia americana (i tentativi di ribaltare l’esito elettorale del 2020) e appropriazione di documenti top secret. Anche se ciò esula strettamente dal tema “pace”, incide sulla valutazione etica complessiva: un Nobel a un leader sotto processo per eversione democratica sarebbe quantomeno imbarazzante, per non dire ipocrita, specie nel momento in cui il Nobel 2025 è stato assegnato a un’attivista contro una dittatura (Machado vs Maduro). Come conciliare l’idea di premiare Machado per la democrazia e poi magari Trump, percepito da molti come un aspirante autocrate? Non sorprende che un membro del comitato Nobel, Asle Toje (peraltro vicino ai conservatori), abbia affermato in passato che “il Nobel non è un premio popolarità o un reality show… Non possiamo premiare chi non soddisfa criteri morali elevati”. Senza citare direttamente Trump, il messaggio era chiaro: la condotta generale conta. I detrattori sottolineano anche un altro punto: premiare Trump oggi equivarrebbe a prendere una posizione politica fortissima e divisiva, cosa che il Comitato Nobel solitamente evita. La stessa premiazione di Obama nel 2009, benché un presidente in carica, fu giustificata perché incarnava un indirizzo nuovo di dialogo globale apprezzato quasi unanimemente in Europa. Al contrario, Trump è inviso a gran parte dell’opinione pubblica europea e mondiale. Premiarlo sarebbe letto come un endorsement verso il populismo nazionalista e autoritario, come un affronto ai valori liberal-democratici. Numerosi intellettuali, accademici e organizzazioni umanitarie hanno già fatto sapere che un eventuale Nobel a Trump provocherebbe proteste e danneggerebbe la reputazione stessa del premio. Un aspetto spesso citato è che Trump ha tentato di manipolare il processo Nobel, mobilitando apertamente sostenitori e governi amici in suo favore. Questo è senza precedenti nella storia recente. Sebbene altre figure abbiano avuto campagne spontanee (p.es. “Nobel a Gandhi” ai tempi, che purtroppo non arrivò mai), nel caso di Trump sembra pianificato. Ciò costituisce per molti un vulnus: il Nobel per la Pace non deve apparire suscettibile di pressioni o lobbying. La lettera pubblica di Netanyahu con immagine taroccata di Trump premiato è stata considerata di cattivo gusto e un tentativo sfacciato di influenzare l’esito. Dare seguito a questa messa in scena consegnandogli davvero il premio significherebbe per i detrattori profanare la serietà del Nobel. Vorrebbe dire trasformare il Nobel in un reality show, dove vince chi fa più rumore, non chi ha più merito. Questo timore è condiviso anche da molti sostenitori istituzionali del premio. Ad esempio, l’ex segretario del Comitato, Geir Lundestad, ha in passato espresso rammarico per il Nobel a Obama (troppo prematuro) e sicuramente avrebbe obiezioni anche su Trump. Premiare Trump adesso sarebbe un errore storico. Offuscherebbe il Nobel associandolo a una persona che – se pure ha mediato un accordo – è lontanissima dall’essere un simbolo di pace. Rischierebbe di spaccare il mondo invece di unirlo: un paradosso per un riconoscimento che dovrebbe portare consenso sui valori universali. E soprattutto, invierebbe il messaggio sbagliato: che basta un colpo diplomatico sensazionale per ripulire l’immagine di un leader bellicoso e intollerante.
Nina Celli, 16 ottobre 2025