Chi ha sostenuto la candidatura di Trump al Nobel per la Pace argomenta che i risultati pacifici ottenuti durante la sua presidenza sono straordinari e immediati, al punto che attendere oltre per un riconoscimento sarebbe ingiustificato. Questa tesi enfatizza l’idea del “momento storico”: il 2025 è stato un anno in cui, grazie alla leadership di Trump, si sono verificate svolte che hanno cambiato il corso di conflitti pluridecennali. Il cessate il fuoco in Medio Oriente fra Israele e Hamas viene paragonato a un “accordo di Camp David” dei giorni nostri, per la sua portata epocale. “At long last, we have peace in the Middle East” (“Finalmente, abbiamo la pace in Medio Oriente”), ha proclamato Trump stesso con enfasi durante il vertice in Egitto. Per i suoi sostenitori non si tratta di una vanteria vuota: per la prima volta dal 2006 (quando fallì il Piano di pace di Annapolis) israeliani e palestinesi siedono a un tavolo con un percorso definito per una soluzione. Trump ha portato più di 20 leader da tutto il mondo a Sharm el-Sheikh per firmare l’accordo, galvanizzando una coalizione internazionale di sostegno. È riuscito là dove tentativi precedenti erano naufragati: il piano in 20 punti di Trump è pragmatico e step-by-step. Proprio questo realismo graduale ha convinto tutte le parti ad aderire. Ad esempio, non impone precondizioni impossibili, ma concentra la prima fase sullo scambio umanitario (ostaggi/prigionieri) e sulla sicurezza immediata (stop alle armi, zone cuscinetto). “Time Magazine” osserva che congelare i propositi più estremisti (come la ventilata espulsione di massa dei gazawi) e guadagnare tempo è già “significativo”: in altre parole, Trump ha arrestato una tragedia in corso e aperto uno spazio negoziale che nessuno aveva saputo creare. Questo, per i favorevoli, risponde pienamente all’intento di Alfred Nobel di premiare chi “lavora per l’abolizione o la riduzione degli eserciti”: Trump ha ottenuto il ritiro di buona parte dell’esercito israeliano da Gaza (riducendo l’occupazione militare dal controllo dell’80% del territorio al 58% entro pochi giorni) e la consegna degli ostaggi senza condizioni (in passato Hamas pretendeva il ritiro totale in cambio di tutti gli ostaggi; Trump lo ha sbloccato senza arrivare a tanto). Questo è un deciso passo verso la smilitarizzazione del conflitto. Inoltre, la logica della sua mediazione è stata inclusiva: ha coinvolto tutte le potenze regionali rilevanti – Egitto e Qatar come garanti, Turchia come mediatore con Hamas, Arabia Saudita e altri Paesi arabi come sostenitori finanziari, creando un’alleanza diplomatica mai vista prima attorno alla questione Gaza. Ciò rientra perfettamente nella “promozione di congressi di pace” voluta da Nobel. Un altro pilastro della tesi è la coerenza di Trump nel cercare soluzioni negoziali invece che soluzioni belliche. Per quanto percepito come uomo “duro”, in realtà Trump si è distinto per non aver iniziato alcuna nuova guerra americana, anzi per aver lavorato a concludere quelle esistenti. Nel suo primo mandato ha evitato di aprire fronti militari nonostante crisi spinose (Corea del Nord, Iran). Nel secondo mandato ha investito il capitale politico su trattative di pace multi-scenario: ha preferito la via diplomatica persino in contesti dove un approccio militare sarebbe stato più semplice da vendere all’opinione pubblica. Ad esempio, invece di intensificare lo scontro con l’Iran dopo incidenti nel Golfo, ha usato la leva delle tregue mediorientali e della pressione diplomatica (coinvolgendo Oman e Iraq come canali) per far abbassare i toni a Teheran. Ha ospitato alla Casa Bianca leader mondiali contrapposti – come il presidente azero Aliyev e il premier armeno Pashinyan – facendogli firmare un accordo di pace che ha posto fine a una guerra latente da decenni. Questo accordo caucasico è valso a Trump la nomination ufficiale al Nobel proprio da parte di Pashinyan e di altri leader stranieri, impressionati dalla sua efficacia. Lo stesso Netanyahu ha formalmente inviato una candidatura di Trump al Comitato Nobel per il suo ruolo negli Accordi di Abramo del 2020, riconoscendo che fu la diplomazia americana di Trump a creare quel “nuovo orizzonte di speranza” tra Israele ed Emirati. È emblematico che un leader come Netanyahu – noto per la sua linea dura – abbia scritto al Nobel a favore di Trump: significa che, dal suo punto di vista, Trump ha concretamente reso Israele più sicura tramite accordi pacifici. In generale, la tesi pro-Trump sostiene che egli ha ridefinito il concetto di “pace attraverso la forza” in “pace attraverso il rispetto”: la sua dottrina “Peace through Strength” (esibita anche sullo striscione del meme postato da Netanyahu) non è militarismo, bensì far capire alle parti che conviene negoziare con lui al tavolo perché ha l’autorevolezza (e la determinazione) per garantire e far rispettare gli accordi. Questo approccio ha funzionato: Hamas, sotto pressione diplomatica di Qatar e Turchia e consapevole della risolutezza di Trump, ha accettato di liberare tutti gli ostaggi – cosa mai successa in passato. Israele, pur scettica, ha accettato di ritirare le truppe da gran parte di Gaza e di cedere sul rilascio di migliaia di prigionieri. Questi compromessi storici sono la prova del potere negoziale di Trump: al Nobel vengono spesso premiate personalità che riescono a piegare le parti verso un accordo reciproco. Una citazione spesso ricordata dai pro-Trump è quella del senatore repubblicano Brian Mast: “Tutti stanno parlando: ‘Trump avrà il Nobel per la Pace?’ Quegli accademici e élite in Norvegia devono darglielo”. Sebbene suoni come pressione, riflette un genuino sentimento: non riconoscere Trump sarebbe una discriminazione politica da parte dell’establishment. Secondo i suoi sostenitori, la reticenza del Comitato a premiarlo dipenderebbe solo da pregiudizi ideologici, non certo dalla mancanza di meriti. In effetti, la commissione Nobel del 2025 è composta in maggioranza da membri legati ai partiti di centro-sinistra norvegesi e solo uno vicino alla destra. Questo spiegherebbe perché preferirebbero profili “umanitari” invece di uno come Trump, percepito come populista. Ma i pro-Trump contestano questo approccio: il Nobel dovrebbe guardare ai risultati, non alle simpatie politiche. E i risultati sono innegabili. Se il premio fu conferito in passato ad attori controversi come Henry Kissinger (per una pace poi rivelatasi effimera) o ad altri “uomini forti” che comunque chiusero guerre (p.es. Begin e Sadat 1978), allora a maggior ragione va considerato Trump, il cui accordo a Gaza – per quanto fragile – ha effettivamente messo fine a un conflitto devastante e aperto prospettive concrete. Per i suoi sostenitori, Trump è riuscito dove tutti i piani di pace dagli Accordi di Oslo (1993) in poi hanno fallito: ha fermato il ciclo infinito di violenza israelo-palestinese almeno nel breve termine e ha costretto i leader regionali a considerare seriamente la “Two States Solution” come obiettivo finale (nel vertice in Egitto del 13 ottobre, al-Sisi e altri hanno ribadito il diritto dei palestinesi a uno Stato). Pertanto, essi sostengono che il momento di premiare Trump è ora, perché la portata dei suoi successi è già storica e il Nobel servirebbe a consolidarli per il futuro. Un premio immediato darebbe ulteriore legittimità internazionale al piano di pace, incoraggiando tutti a rispettarlo. Rimandare significherebbe sprecare l’occasione di dare uno slancio aggiuntivo alla pace in corso. E per Trump sarebbe un segnale che la comunità globale apprezza il suo “deal-making” al servizio della stabilità, spingendolo a continuare su questa strada anche su altri fronti (come l’Ucraina).
Nina Celli, 16 ottobre 2025