Chi si oppone al Nobel a Donald Trump sottolinea in primo luogo che il cessate il fuoco raggiunto a Gaza non equivale a una pace stabile e giusta, e dunque premiare ora Trump sarebbe fuori luogo e anticipato. Questa tesi analizza nel dettaglio la situazione sul campo dopo l’accordo mediato dagli Stati Uniti, evidenziandone la precarietà. È vero che “le armi tacciono”, ma Gaza rimane in condizioni catastrofiche e i nodi politici che hanno alimentato il conflitto restano irrisolti. Shibley Telhami, studioso di politiche mediorientali, descrive efficacemente Gaza post-bellica: “Oltre il 10% della popolazione è morto o ferito, il 90% è sfollato, il 78% degli edifici distrutto o danneggiato. Ospedali e scuole fuori uso. Di Gaza, come la conoscevamo, non resta nulla”. Di fronte a questo scenario da incubo, il piano di Trump – afferma Telhami – “si riduce a uno scambio di ostaggi, una tregua di durata incerta e una preghiera”. In altre parole, l’accordo attuale è necessario ma non sufficiente: ha arrestato il bagno di sangue, ma non offre ancora soluzioni concrete su come ricostruire Gaza, chi la governerà e se le cause profonde del conflitto saranno affrontate. Il “percorso in 20 punti” di Trump viene definito “vago e lacunoso”: ad esempio, rimanda la questione del governo di Gaza a un’ipotetica Autorità palestinese futura, senza spiegare come ci si arriverà. Prevede un’autorità transitoria capeggiata da un esponente occidentale (Tony Blair) e supervisionata dallo stesso Trump, ma la sua legittimità è dubbia e la storia insegna che amministrazioni esterne a Gaza sono malviste dalla popolazione. Inoltre, la condizione che Hamas sia totalmente esclusa e disarmata non è facilemnte raggiungibile. Telhami osserva che “ogni aspetto vago dell’intesa potrebbe diventare un pretesto per farla saltare”: basterà che Hamas rifiuti di consegnare tutte le armi o che un incidente sporadico avvenga durante la tregua, e gli elementi oltranzisti del governo israeliano potrebbero considerarsi sciolti dall’accordo. Questo non è allarmismo teorico: è già successo. I 4 giorni di cessate il fuoco a fine novembre 2023, frutto di uno scambio di ostaggi più limitato, fu rotto dalle parti dopo reciproche accuse su incidenti minori; Netanyahu ha violato una tregua a marzo 2025 (durante le trattative) ordinando un raid perché riteneva Hamas inadempiente, salvo poi tornare al tavolo. Questo dimostra che la fiducia tra le parti è inesistente e la tregua poggia su un filo. Per i detrattori di Trump, dunque, celebrare un “accordo di pace” è quantomeno prematuro: sul campo è percepito più come una pausa umanitaria per lo scambio di ostaggi che come l’inizio di un nuovo capitolo. Il governo israeliano stesso ha definito pubblicamente l’accordo “uno scambio di prigionieri”, segnalando che considera il ritiro parziale da Gaza semplicemente il prezzo per riavere i propri ostaggi, non una rinuncia definitiva alle operazioni militari. Non c’è alcuna garanzia che Israele non riprenda l’offensiva se riterrà che Hamas non stia rispettando qualcosa o se muteranno le circostanze politiche interne (Netanyahu è sotto pressione dall’estrema destra israeliana, contraria a concessioni). D’altro canto, Hamas potrebbe riorganizzarsi durante la tregua e rifiutare alcune condizioni (per esempio lo spiegamento di forze internazionali a Gaza), riaccendendo lo scontro. Dunque, secondo i critici, la “pace di Trump” a Gaza è ancora letteralmente appesa a un filo e non c’è alcuna certezza di durata né tantomeno di risoluzione del conflitto israelo-palestinese. In questa prospettiva, attribuirgli un Nobel adesso sarebbe come dichiarare “missione compiuta” mentre la missione è tutt’altro che compiuta. A maggior ragione perché nessuno dei problemi politici di fondo è stato risolto: Gaza rimane senza un futuro definito, il diritto all’autodeterminazione palestinese è lasciato in un generico “percorso eventuale”, i coloni israeliani continuano a espandersi in Cisgiordania e la questione di Gerusalemme non è neppure toccata dal piano. Con tali premesse, molti temono che la tregua collasserà sotto il peso delle contraddizioni, come avvenne con gli Accordi di Oslo degli anni ‘90 (anch’essi festeggiati con un Nobel precoce nel 1994, seguito poi dal fallimento di Camp David 2000 e dalla Seconda Intifada). Premiare Trump ora rischierebbe di ricordare proprio quel precedente: Rabin, Peres e Arafat vinsero il Nobel sull’onda di una speranza di pace che poi sfumò tragicamente; il Nobel non impedì il successivo precipitare degli eventi. Gli oppositori suggeriscono di imparare da quella lezione di prudenza. Sul piano etico e valoriale, Trump è visto come una figura che non rispecchia affatto lo spirito del Premio Nobel per la Pace. La domanda che molti detrattori pongono è: “un uomo divisivo, aggressivo e autoritario può essere insignito come simbolo di pace?”. La pace, argomentano, non è solo l’assenza momentanea di guerra, ma anche la costruzione di condizioni di armonia, collaborazione internazionale e rispetto dei diritti umani. Sotto questo profilo, il curriculum di Trump è giudicato negativamente: durante la sua presidenza, ha alimentato conflitti e tensioni in altre forme. In patria, la sua retorica e le sue azioni hanno creato fratture sociali profonde. Ha definito gli avversari politici come “nemici del popolo”, incoraggiando polarizzazione e odio reciproco. Ha risposto a proteste interne schierando l’esercito (o minacciando di farlo) nelle città americane, violando le prassi democratiche consuete. Ha ordinato politiche come la separazione forzata delle famiglie migranti al confine, generando sofferenze (benché interne, contrarie al concetto di fraternità universale). A livello globale, ha minato accordi multilaterali cruciali: l’uscita degli USA dall’Accordo di Parigi sul clima nel 2017 – decisa da Trump – è stata considerata un passo indietro drammatico nella cooperazione internazionale per un bene comune (la lotta al cambiamento climatico). Molti vedono l’azione climatica come parte integrante della pace (perché i disastri climatici generano conflitti e migrazioni); il Nobel a Trump apparirebbe quasi come un premio a chi ha ostacolato questi sforzi. Inoltre, Trump ha scatenato guerre commerciali con alleati e rivali, imponendo dazi e barriere che hanno inasprito le relazioni (con la Cina, con l’Unione Europea), contravvenendo allo spirito di cooperazione economica pacifica. Sul fronte dei diritti umani e della diplomazia preventiva, la sua amministrazione ha spesso tagliato fondi a organismi internazionali (ad esempio UNESCO, UNRWA) o adottato approcci confliggenti con il diritto internazionale (come dichiarare i cartelli della droga “nemici combattenti” per giustificare operazioni militari extraterritoriali). Un Nobel per la Pace dovrebbe ispirare moralmente: i detrattori sostengono che Trump non possa ispirare la comunità internazionale alla pace perché incarna, al contrario, il nazionalismo muscolare, la supremazia dell’interesse proprio su quello comune, la disponibilità a usare la forza se conviene. Un membro del Comitato Nobel, alludendo forse a Trump, ha ricordato che loro cercano coraggio e integrità morali nei laureati, “decisioni basate sul lavoro e sulla volontà di Alfred Nobel”, non sulla pressione politica esterna. Alfred Nobel parlava di “riduzione degli eserciti permanenti”: anche su questo punto, la condotta di Trump è dubbia, dato che ha aumentato record di spesa militare negli USA e incoraggiato gli alleati NATO a riarmarsi di più. Ha venduto enormi quantità di armi a Paesi come l’Arabia Saudita durante la guerra in Yemen (contraddicendo l’idea di ridurre gli arsenali). Critici come il lettore britannico Derek Robinson hanno sentenziato: “Trump meriterà il Nobel per la Pace quando aprirà l’ambasciata USA nello Stato indipendente di Palestina”, ossia quando dimostrerà davvero di aver risolto in modo giusto la questione israelo-palestinese. Ad oggi, rilevano, quell’obiettivo è ben lungi dall’essere realizzato e anzi Trump inizialmente non si era impegnato per esso (riconoscendo Gerusalemme come capitale indivisa di Israele e tagliando i fondi all’Autorità Palestinese durante il suo primo mandato). In questo senso, la sua recente veste di “peace-maker” appare più come una conversione tattica che come un impegno coerente ai principi di pace. Il Nobel, dicono i contrari, non dovrebbe essere assegnato per una azione di pace isolata, ma a chi ha dedicato la propria visione e carriera a costruire ponti di pace. Molti hanno evidenziato anche la politicizzazione e strumentalizzazione che Trump ha fatto del Nobel stesso. Nessun aspirante alla pace, secondo loro, ha mai bramato e richiesto il premio con tanta insistenza quanto Trump – e questo è in sé contrario allo spirito di modestia e servizio che ci si aspetta da un Nobel. Nell’immaginario comune, i Nobel per la Pace sono persone come Madre Teresa, Nelson Mandela o Malala Yousafzai: individui che agiscono per ideali, non per gloria personale, e spesso riluttanti a prendersi meriti. Trump, al contrario, ha mostrato un desiderio quasi ossessivo del riconoscimento. Lo ha menzionato ripetutamente nei comizi e sui social, lamentando che il Comitato non lo premia per via di pregiudizi (“Se mi chiamassi Obama me l’avrebbero dato subito” è una sua frase ricorrente). Ha persino telefonato a Jens Stoltenberg (ministro norvegese) per parlargli del Nobel, un’azione senza precedenti che molti hanno interpretato come pressione inappropriata. I suoi alleati hanno orchestrato una campagna mediatica senza vergogna: apparizioni coordinate sui media per dire che “Trump lo merita” (il deputato Mast in TV: “devono darglielo”, l’ex portavoce Levy: “c’è consenso in Israele: Trump lo merita”). Netanyahu ha addirittura diffuso una foto fittizia di Trump premiato, come a voler forzare la mano. Tutto ciò ha generato irritazione e il timore che il Nobel venisse strumentalizzato come trofeo elettorale. Un insider di Oslo ha confidato alla stampa che ricevono migliaia di lettere di raccomandazione ogni anno e sanno riconoscere quando dietro c’è una regia politica piuttosto che genuino sostegno popolare. Nel caso di Trump, i critici sostengono che molte nomination siano state fatte “non perché lo meriti, ma perché chi le fa vuole ingraziarselo” – ad esempio leader come Hun Manet in Cambogia o persino Netanyahu stesso, che avevano interesse a compiacere Trump per benefici diplomatici. Danno come prova il fatto che molte candidature (oltre 6) sono arrivate dopo la scadenza di nomination e con gran clamore mediatico, suggerendo più uno show per l’elettorato interno che un reale iter di candidatura. Premiare Trump in questo contesto rischierebbe di legittimare un precedente pericoloso: basterà fare pressioni e marketing per ottenere un Nobel? Inoltre, i detrattori temono che assegnare il Nobel a Trump equivarrebbe a intervenire pesantemente nella politica americana, avallando di fatto la sua leadership (Trump è in corsa per la rielezione nel 2028). Il Comitato Nobel ha sempre cercato di evitare di schierarsi in modo troppo divisivo in contese politiche immediate, ed è difficile immaginare figura più divisiva di Trump nella politica odierna. Inoltre, c’è la considerazione di credibilità storica del Nobel. I premi più controversi del passato sono rimasti una macchia nella reputazione del Comitato: l’esempio classico è Henry Kissinger 1973, che fu premiato per gli accordi di Parigi sul Vietnam mentre la guerra non era veramente finita (pochi mesi dopo, i combattimenti ripresero e nel 1975 i nordvietnamiti vinsero la guerra). Kissinger era considerato responsabile di bombardamenti segreti in Cambogia e di appoggiare colpi di Stato, e quel Nobel è tuttora citato come “farsa” da molti storici. Addirittura, Lê Đức Thọ rifiutò di condividerlo, definendolo privo di senso in quelle circostanze. Ebbene, secondo Federico Rampini e altri commentatori, un Nobel a Trump supererebbe persino il caso Kissinger in termini di polemica. Kissinger almeno pose fine ufficialmente a una guerra (sia pure temporaneamente), ma Trump non ha neppure concluso formalmente alcun conflitto: a Gaza c’è una tregua, non un trattato di pace; in Ucraina la guerra continua; in altri luoghi (come Yemen o Siria) la sua influenza è marginale. Ci sono poi considerazioni di opportunità: quando Obama fu premiato nel 2009 con pochissimi mesi di presidenza, molti ritennero quel Nobel affrettato e imbarazzante (lo stesso Obama ammise “non so perché l’ho vinto”). Nel caso di Trump, che pure è a metà mandato, vi è la medesima sensazione: cosa succederebbe se la tregua di Gaza collassasse dopo il Nobel? Il premio risulterebbe delegittimato, e con esso il Comitato. Va ricordato che il Nobel per la Pace può essere assegnato anche postumo (come a Dag Hammarskjöld 1961) o decenni dopo le azioni, quando la loro eredità è chiara (a Jimmy Carter fu dato 20 anni dopo la presidenza, in parte come critica a Bush). I critici suggeriscono che Trump sia semmai candidato per un Nobel futuro, se i risultati da lui avviati reggeranno alla prova del tempo. Ma oggi sarebbe un azzardo: “The Washington Post” ha notato che la composizione del Comitato Nobel 2025, incentrata su figure di centro-sinistra, “tende a favorire sforzi umanitari e di consenso tradizionali, piuttosto che la diplomazia orientata ai deal di Trump”. E anche alcuni esponenti moderati americani hanno espresso perplessità: il senatore democratico Fetterman ha ironizzato che sarebbe il primo a guidare la campagna per far vincere il Nobel a Trump se davvero portasse la pace anche in Ucraina. Sottinteso: per ora non ci siamo, manca un pezzo. Questa posizione riflette un diffuso sentiment: Trump sarà anche sulla buona strada, ma non basta una tregua a Gaza per parlare di pace complessiva. In molti, dunque, sostengono che Trump non meriti (ancora) il Nobel per la Pace. La tregua di Gaza è un passo positivo ma incompleto e revocabile: premiarlo ora significherebbe premiare una promessa e non un risultato consolidato. Inoltre, la figura di Trump contraddice i valori di cooperazione pacifica e rispetto dei diritti umani che il Nobel incarna, premiarlo comprometterebbe la reputazione del premio stesso. Meglio attendere, dicono, se mai raggiungerà una “pace giusta” e vera – ad esempio con la nascita di uno Stato palestinese accanto a Israele.
Nina Celli, 16 ottobre 2025