Donald Trump è il primo presidente USA da decenni a conseguire risultati tangibili di pace in Medio Oriente, ottenuti con una diplomazia innovativa e coraggiosa. I suoi sostenitori ricordano che nel 2020 fu l’artefice degli Accordi di Abramo, i trattati che hanno normalizzato le relazioni fra Israele e vari Paesi arabi (Emirati Arabi, Bahrein, Sudan, Marocco), ponendo fine a decenni di isolamento reciproco. Questi accordi – paragonati per importanza a Camp David 1978 – sono stati formalmente mediati dall’amministrazione Trump, che ne rivendica il merito storico. A ciò si aggiunge l’aver favorito intese in altri scenari di conflitto: ad esempio un accordo di cooperazione economica fra Serbia e Kosovo e una tregua tra fazioni in Afghanistan (premesse dei colloqui con i Talebani). Ma il coronamento è arrivato nel suo secondo mandato, con la fine della guerra di Gaza. Dopo due anni di atroci combattimenti (2023-2025), Trump ha annunciato un accordo senza precedenti che ha fermato le ostilità tra Israele e Hamas. La prima fase di questo piano di pace ha comportato risultati immediati e misurabili: sospensione dei bombardamenti, evacuazione dei feriti, ingresso di convogli umanitari con cibo e medicine, e soprattutto il ritorno a casa di oltre 200 ostaggi israeliani in mano a Hamas, contemporaneamente alla liberazione di migliaia di prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane. Si tratta di un evento epocale: madri, padri e bambini tenuti in cattività per due anni hanno potuto riabbracciare le famiglie grazie alla trattativa condotta dagli emissari di Trump. “Ho salvato molte vite”, ha potuto affermare il presidente, riferendosi a questo esito. E, al di là di ogni autocelebrazione, gli si riconosce che ha messo fine alle uccisioni in corso: “il più grande trionfo di politica estera di Trump: una tregua e uno scambio di ostaggi ampiamente lodati, che potrebbero segnare la fine di due anni di guerra a Gaza”. In termini di criteri Nobel, questi sono contributi concreti alla “fratellanza tra le nazioni”: ha fatto dialogare nemici giurati e ottenuto compromessi umanitari. Il Comitato Nobel in passato ha premiato leader per molto meno: Barack Obama ricevette il Nobel sulla fiducia, quando la guerra in Afghanistan e Iraq infuriava ancora. Trump invece può rivendicare di aver realmente fermato un conflitto sanguinoso in corso. Non si tratta solo di Gaza. Trump ha abbracciato un ruolo di pacificatore globale: la sua amministrazione ha promosso e/o raggiunto oltre una mezza dozzina di accordi in varie regioni. Oltre ai casi citati (Medio Oriente e Balcani), nell’estate 2025 ha ospitato alla Casa Bianca la firma di un accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian, ponendo fine al lungo conflitto nel Nagorno-Karabakh. Si è speso per allentare le tensioni tra India e Pakistan (su Kashmir e scontri di confine) e tra Israele e Iran (fermandone l’escalation militare): in entrambi i casi ha ottenuto cessate il fuoco o “accordi iniziali” che hanno evitato guerre aperte. Ha perfino convocato un summit in Alaska con Vladimir Putin per esplorare una tregua in Ucraina (evento che, pur non avendo prodotto un accordo immediato, testimonia la sua volontà di provare a chiudere anche quel conflitto). Questo iperattivismo diplomatico non ha paralleli recenti: in soli nove mesi di mandato, Trump ha toccato più focolai di qualunque altro leader mondiale, spesso riuscendo dove altri fallivano. Tale frenetica opera di pacificazione riflette anche un cambio di paradigma rispetto al passato: mentre precedenti presidenti USA avviavano guerre (Iraq 2003) o le prolungavano, Trump ha puntato a chiuderle. Un forum di familiari di ostaggi israeliani, commentando la sua mancata premiazione, ha dichiarato che i “risultati di pace senza precedenti ottenuti da Trump nell’ultimo anno parlano da soli” e “nessun premio o la sua mancanza potrà sminuire l’impatto profondo che ha avuto sulle nostre famiglie e sulla pace globale”. Questa affermazione – proveniente da persone direttamente coinvolte dal conflitto – evidenzia come sul campo Trump sia percepito come un salvatore di vite. E il Nobel nasce proprio per incoraggiare chi salva vite fermando guerre. C’è, inoltre, un riconoscimento trasversale del suo merito. Non parliamo solo dei suoi alleati di partito, ma di autorevoli figure di schieramenti opposti e di Paesi diversi. L’ex presidente Bill Clinton, storico rivale dei repubblicani, ha elogiato Trump riconoscendo che lui, insieme ai partner del Qatar e altri, “merita grande credito” per aver tenuto tutti i negoziatori impegnati fino all’accordo. Clinton ha pubblicamente ringraziato Trump per aver reso possibile la liberazione degli ostaggi e l’afflusso di aiuti a Gaza, definendo “questo momento fragile” come l’inizio di una speranza di pace duratura. Anche Hillary Clinton, sua acerrima avversaria nel 2016, ha riconosciuto i progressi del piano di Trump, così come Kamala Harris (vice di Biden). Quando persino i tuoi oppositori storici riconoscono il successo, vuol dire che il risultato è oggettivo. Inoltre, l’idea del Nobel a Trump ha sostenitori espliciti in tutto il mondo: il presidente d’Israele Herzog – figura super partes – non ha esitato a dire che Trump ha creato una speranza di cambiamento nella realtà mediorientale e “non c’è dubbio che meriti il Premio Nobel per la Pace”. Leaders europei come il premier ungherese Orbán, africani come il presidente del Congo (che gli attribuisce meriti nel ridurre tensioni nella regione dei Grandi Laghi) e asiatici come il leader cambogiano si sono espressi a favore della sua candidatura. Il caso forse più emblematico è quello di María Corina Machado, la vincitrice stessa del Nobel 2025: lungi dal rivendicare solo per sé il riconoscimento, Machado ha dichiarato di credere fermamente che Trump “meriti di essere riconosciuto” e “certamente” dovrebbe ricevere il prossimo Nobel. Ha sottolineato che “in soli nove mesi molteplici conflitti sono stati risolti o prevenuti”, specie quello in Medio Oriente, definendolo “remarkable” (straordinario). Questa è una testimonianza di altissimo profilo morale: un’attivista democratica che dedica l’onore del suo Nobel a un altro leader, riconoscendo che lui ne sarebbe degno per i suoi risultati di pace. Se una voce così autorevole e neutrale sul piano geopolitico indica Trump, come negare che il suo contributo sia di portata globale? Va considerato, inoltre, che Trump ha conseguito quello che Alfred Nobel auspicava nei suoi criteri. Il premio va a chi compie “il maggior lavoro per la fratellanza tra le nazioni, la riduzione degli eserciti e la promozione di congressi di pace”. Ebbene, Trump ha letteralmente riunito nemici attorno a un tavolo di pace: ha promosso summit internazionali (come quello di Sharm el-Sheikh) coinvolgendo decine di nazioni; ha ridotto la presenza militare sul campo ottenendo dall’esercito israeliano un ritiro (seppure parziale) da Gaza e convincendo Hamas a deporre le armi almeno temporaneamente; ha alimentato la “fratellanza” tra popoli storicamente ostili, come israeliani e arabi del Golfo (Accordi di Abramo) o armeni e azeri, dimostrando che la diplomazia del dialogo diretto può sostituire i carri armati. Persino nel modus operandi, da “uomo del fare”, Trump ha incarnato l’idea di pace attiva: non solo discorsi, ma risultati concreti. Ai suoi critici, che gli rimproveravano un eccesso di personalismo, i sostenitori rispondono che in realtà ha innovato la diplomazia rompendo schemi fallimentari. Come ha scritto un’analisi, Trump “ha agito da imprenditore più che da politico” e proprio questa mentalità – pragmatica e fuori dagli schemi – ha spezzato il circolo vizioso di recriminazioni reciproche, sbloccando situazioni impantanate da anni. Ha parlato in modo schietto ai leader mediorientali, “brutale ma efficace”, e ciò ha prodotto fatti: nessun altro leader occidentale aveva il potere di fermare la spirale di violenza, ammette persino un network tradizionalmente critico come “CNN”. Dunque, in un’epoca in cui tanti processi di pace si arenano nelle buone intenzioni, Trump ha mostrato leadership e capacità esecutiva nel conseguire tregue e accordi concreti. Per tutte queste ragioni, in molti sostengono che Trump abbia pienamente meritato il Nobel per la Pace. Non premiarlo – a loro avviso – rappresenta un’occasione persa di riconoscere un progresso reale verso un mondo meno bellicoso. Dopo anni di guerre ininterrotte, veder tacere le armi (anche se temporaneamente) grazie all’azione diretta di un leader è esattamente ciò che il Nobel dovrebbe celebrare e incentivare. “Non c’è mai stato un presidente americano che lo meritasse di più” ha scritto – con una punta di incredulità – persino il “Washington Post”, solitamente critico. I favorevoli concordano: Trump come “Presidente della Pace” sarebbe un titolo appropriato e il Nobel sancirebbe ufficialmente questo ruolo.
Nina Celli, 16 ottobre 2025