La scelta di non revocare l’immunità per fatti pre-mandato altera l’architettura delle immunità parlamentari europee e mina la cooperazione giudiziaria tra Stati membri. La prassi dell’Eurocamera è stata storicamente deferente verso le richieste nazionali (si veda il caso degli indipendentisti catalani, in cui il Parlamento tolse l’immunità lasciando poi a giudici nazionali ed europei l’eventuale vaglio di garanzie e diritti). Qui, invece, l’assemblea ha “giudicato” ex ante l’affidabilità di un sistema giudiziario nazionale, sostituendosi nei fatti al controllo giurisdizionale (Corti nazionali, CEDU, CGUE) e politicizzando un istituto pensato per proteggere l’indipendenza funzionale del mandato, non per schermare reati comuni anteriori all’elezione. Si teme un effetto emulativo: soggetti con procedimenti pendenti potrebbero candidarsi strategicamente per ottenere uno scudo politico, trasformando il Parlamento europeo in una sorta di “porto franco”. Inoltre, far dipendere l’esito di revoche dall’appartenenza a famiglie politiche o dall’impopolarità di un governo nazionale (qui l’Ungheria) alimenta la percezione di doppio standard e logora la fiducia reciproca necessaria al mutuo riconoscimento di decisioni e mandati d’arresto europei. In prospettiva, altri esecutivi potrebbero rispondere specularmente, rifiutando cooperazione quando l’imputato appartiene al “fronte politico avverso”, con un boomerang sull’intero spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’UE. La sede corretta per verificare un sospetto fumus persecutionis non è l’aula parlamentare, ma giudici terzi e meccanismi di salvaguardia (ad es. rifiuto mirato dell’estradizione, garanzie diplomatiche, misure alternative transfrontaliere). Diversamente, si crea un precedente che confonde ruoli politici e giurisdizionali e indebolisce il principio — basilare — secondo cui l’eguaglianza davanti alla legge precede e sorregge la rappresentanza.
Nina Celli, 9 ottobre 2025