I sostenitori del mantenimento dell’immunità per la Salis argomentano che “giustizia” non significa semplicemente celebrare un processo ovunque e comunque, ma garantire un processo equo, imparziale e rispettoso dei diritti dell’imputato. Nel caso di Ilaria Salis, ciò non sarebbe stato possibile in Ungheria, dato il contesto di pesante interferenza politica sul potere giudiziario. La protezione dell’immunità diventa allora uno strumento per riallocare la giurisdizione verso un tribunale che offra quelle garanzie minime. Salis stessa ha sempre dichiarato: “Il rigetto della revoca ungherese non implica affatto che io voglia sottrarmi alla giustizia. Chiedo a gran voce di essere processata in Italia, con tutte le garanzie dello Stato di diritto”. Questa frase chiede di fermare il procedimento ungherese per trasferirlo a casa propria, dove giudici indipendenti possano valutare i fatti senza pressioni. L’Italia, secondo i favorevoli, ha anzi il dovere di farsi carico del caso: la legge italiana prevede la possibilità di giudicare un cittadino per reati commessi all’estero, su impulso del ministro della Giustizia. Dunque, la “rappresentanza popolare” di Salis non implica impunità: semmai sposta il foro competente a un sistema giudiziario affidabile e terzo. “Le autorità italiane restano libere di aprire un procedimento a mio carico, come io stessa auspico”, ha ribadito la Salis in più sedi, invitando il ministro Nordio ad attivarsi. Questa posizione richiama il principio del fair trial sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: se esistono seri dubbi sull’equità di un processo in uno Stato, gli altri Paesi (e l’UE) hanno la responsabilità di non collaborare a un potenziale miscarriage of justice. L’Ungheria di Orbán, ricordano i sostenitori di questo punto di vista, è soggetta dal 2018 a una procedura ex art. 7 TUE proprio per violazioni sistemiche dell’indipendenza giudiziaria. Organismi come l’Hungarian Helsinki Committee e la stessa Commissione UE hanno documentato un tasso abnorme di custodia cautelare e di sovraffollamento carcerario in Ungheria, segno di un sistema punitivo poco garantista. Nel caso in esame, il trattamento riservato alla Salis – incatenata in aula, senza traduzione degli atti, con prove non condivise alla difesa – ha alimentato il convincimento che “in Ungheria non è possibile un processo equo nei [suoi] confronti”. Perfino alcuni deputati moderati del PPE, in privato, si sono detti “sinceramente preoccupati” per cosa sarebbe accaduto alla Salis consegnandola alla giustizia magiara, scegliendo dunque di votare in coscienza per proteggerla. Dal punto di vista giuridico, l’immunità non cancella i reati, ma li congela fintanto che sussistono condizioni di rischio. “La mia immunità europea non impedisce l’apertura di un procedimento a mio carico in Italia” – ha spiegato la Salis – “È fondamentale conservarla solo per difendermi dalla vendetta di Orbán”. L’immunità parlamentare, quindi, fungerebbe da ponte verso una giurisdizione più sicura, non da scudo definitivo. In effetti, con l’immunità confermata, spetta al governo italiano valutare se chiedere formalmente di processare la propria cittadina in patria. La Decisione Quadro 2009/829/GAI, infatti, consente di trasferire le misure cautelari tra Stati UE (ad esempio, concedendo i domiciliari nel Paese d’origine anziché tenere in carcere un imputato all’estero). Nel caso della Salis, però, l’Italia si è mossa tardi e timidamente (nessuna iniziativa concreta di transfer del procedimento è stata presa inizialmente, nonostante gli appelli della famiglia). I favorevoli ritengono quindi che il Parlamento europeo, negando la revoca, abbia indirettamente sollecitato Roma ad assumersi le proprie responsabilità. Un ulteriore argomento a tutela dell’immunità è che, in prospettiva, la scelta di non sacrificare la giustizia alla “ragion di Stato” rafforza la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Cedere a Orbán una deputata italiana – eletta democraticamente – per farne un capro espiatorio avrebbe creato sconforto e allarme: “Hanno capito cosa potrebbe accadermi… Hanno scelto di far prevalere le garanzie democratiche sulla appartenenza politica”, ha detto la Salis dei colleghi che l’hanno sostenuta. Ciò indica che, per molti, il principio del processo giusto è preminente sul rigore astratto. Anche nel dibattito italiano la domanda è stata posta: “Salvini vorrebbe la giustizia illiberale anche in Italia?” – ha provocatoriamente chiesto la Salis, replicando alle critiche leghiste. Consegnarla a Budapest avrebbe significato avallare, di fatto, un modello di giustizia vendicativa che l’UE stessa condanna. Al contrario, garantendole un processo in un contesto affidabile (Italia), si attua un equilibrio tra l’esigenza di punire eventuali reati e quella di assicurare che la punizione non sia frutto di un abuso. In questo caso, quindi, la giustizia non si “ferma” davanti alla rappresentanza popolare, bensì cambia sede per poter realmente funzionare. L’immunità della Salis è stata lo strumento tecnico per impedire un processo ingiusto e incanalare la vicenda verso una soluzione conforme allo Stato di diritto. Come ha commentato un eurodeputato verde, “hanno capito perfettamente lo stato di salute della democrazia in Ungheria” e hanno agito di conseguenza. Resta ora aperta la sfida: l’Italia dovrà attivarsi affinché la Salis venga giudicata da un tribunale indipendente, soddisfacendo sia la richiesta di giustizia sia quella di equità.
Nina Celli, 9 ottobre 2025