Gli oppositori alla scelta del Parlamento UE di non revocare l’immunità di Ilaria Salis sostengono, in primis, un principio di eguaglianza: nessun cittadino, neanche eletto, dovrebbe sottrarsi alla giustizia ordinaria. Secondo questa tesi, bloccare il procedimento penale contro la Salis per via della sua carica istituzionale equivale a creare una categoria di “intoccabili”, contravvenendo al principio cardine dello Stato di diritto per cui la legge è uguale per tutti. “Il Parlamento europeo non è il posto per scappare dalle sentenze della giustizia” ha dichiarato l’eurodeputato Nicola Procaccini (Fratelli d’Italia/ECR). In sostanza, non importa quale sia il contesto politico: se la Salis è accusata di aggressione violenta, deve affrontare un processo e – se colpevole – pagarne le conseguenze, come sarebbe per qualsiasi altro individuo. La sua rappresentanza popolare non può trasformarsi in un salvacondotto permanente. I critici puntano l’attenzione sui fatti contestati alla Salis, ridimensionando l’aura di “perseguitata politica”. Ricordano che l’attivista è accusata di aver partecipato a un pestaggio di persone (per quanto neonaziste) e sottolineano come lei stessa abbia un passato burrascoso con la legge: due condanne penali definitive in Italia (per occupazione e resistenza) indicano, secondo loro, una tendenza all’illegalità che non può essere giustificata dall’attivismo. “I fatti imputati sono chiari e sarà difficile per la pasionaria difendere il suo comportamento volutamente violento”, scrive polemicamente Marco Zacchera, ex deputato, evidenziando come la narrazione di “innocente perseguitata” sia fuorviante. Anche il governo ungherese insiste su questo punto: Zoltán Kovács, portavoce di Orbán, ha affermato che la Salis e i suoi compagni “sono arrivati non per discutere, ma per colpire, aggredendo passanti innocenti, alcuni quasi rimasti senza vita”. Per Budapest, dunque, la Salis è una pericolosa criminale comune che “ha trovato rifugio dietro un mandato di Bruxelles”. Se davvero la Salis avesse commesso aggressioni, il fatto di essere diventata eurodeputata dopo non dovrebbe assolverla né immunizzarla rispetto a quanto accaduto prima. Un punto focale è l’aspetto temporale: la contestazione alla Salis riguarda eventi avvenuti prima della sua elezione. Per i critici, questo è decisivo: l’immunità parlamentare è concepita – storicamente e giuridicamente – per proteggere i parlamentari dalle conseguenze delle loro opinioni o atti nell’esercizio del mandato, non per garantire impunità riguardo a reati comuni precedenti. “I nostri consiglieri giuridici ci hanno detto che è giusto revocare l’immunità alla Salis perché il reato contestato è stato commesso prima del suo mandato”, ha spiegato Manfred Weber, capogruppo PPE, motivando la linea favorevole alla revoca. Weber ha insistito che “l’istituto dell’immunità non è nato per proteggere gli europarlamentari dalla legge o dai processi” e che invocare il fumus persecutionis in questo caso “sarebbe un precedente pericoloso”. Similmente, Adrián Vázquez (il relatore JURI che proponeva la revoca) ha sostenuto che il fumus può valere solo per atti commessi durante il mandato parlamentare, mai per fatti antecedenti. Dunque, la maggioranza dell’Eurocamera – secondo questa tesi – ha piegato le regole pur di salvare la Salis, violando una prassi consolidata e aprendo la porta a possibili abusi futuri. Ad esempio, altri attivisti o politici con guai giudiziari potrebbero candidarsi al Parlamento UE solo per sfuggire ai processi: diventerebbe un “porto franco” per ricercati. Lo stesso Orbán ora potrebbe dire: “basta fuggire a Bruxelles e non si paga il conto”. Non a caso, il mantra di Salvini dopo il voto JURI è stato: “Chi sbaglia, non paga… vergogna”, accompagnato dal meme “Poltrona salva, dignità persa”. Per il ministro italiano, l’Europarlamento ha lanciato un pessimo segnale ai cittadini: esiste un doppio binario della giustizia, uno per i politici “amici di certa UE” e uno per la gente comune. I critici contestano anche l’argomento che in Ungheria la Salis non avrebbe un processo equo. Pur riconoscendo le criticità del sistema ungherese, essi ritengono che non spetti al Parlamento europeo sostituirsi ai tribunali nel valutare anticipatamente se un processo sarà giusto o meno. Il diritto UE si basa sul mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie tra Stati membri: mettere in dubbio la magistratura ungherese significa minare quel principio e creare un precedente destabilizzante nei rapporti tra Paesi. “So bene che l’Ungheria non rispetta lo Stato di diritto, ma sono convinto che si deve contrastare Orbán solo rispettando le regole, non violandole come fa lui”, ha affermato provocatoriamente Adrián Vázquez. Questo paradosso è centrale: se l’UE inizia a decidere caso per caso quali sistemi giudiziari nazionali sono abbastanza affidabili e quali no, si scivola su un terreno politico pericoloso che può compromettere la cooperazione giudiziaria UE (ad esempio, mandati d’arresto europei, estradizioni). Per i contrari, era compito eventualmente della Corte di Giustizia UE valutare – in sede di ricorso formale – se ci fossero gli estremi per rifiutare l’estradizione (in base al principio del fair trial). Ma il Parlamento ha agito politicamente, sospettano, più che giuridicamente, facendosi guidare dal bias anti-Orbán. Tanto che lo stesso Vázquez prevede un ricorso ungherese alla Corte di Giustizia contro la decisione di Strasburgo, con la speranza che il tribunale UE corregga quella che reputano una forzatura. Un altro argomento a cui adducono i contrari alla revoca dell’immunità è l’ipocrisia e il doppio standard insito nella difesa della Salis. L’espressione “garantismo a targhe alterne” usata da Simona Musco – sebbene riferita criticamente alla destra – può essere letta anche al contrario: molte forze di sinistra hanno adottato un garantismo “di comodo” per proteggere una propria esponente, quando in casi analoghi (es. l’eurodeputata greca Eva Kaili del caso Qatargate o altri parlamentari coinvolti in scandali) furono inflessibili nel togliere l’immunità. In quell’occasione non preoccuparono le condizioni detentive dure o il “fumus” di accanimento, perché la persona era divenuta scomoda (accusata di corruzione). Ora, invece, la stessa coalizione progressista parla di Stato di diritto e giusto processo solo perché in ballo c’è un’attivista vicina alle loro idee. Questo mina la credibilità dell’Europarlamento: appare, dall’esterno, che le decisioni sulle immunità vengano prese non su basi oggettive, ma su simpatie politiche. Il quotidiano “Il Giornale” e altre testate di destra hanno infatti accusato la sinistra di aver “scoperto l’immunità parlamentare” quando conviene, dopo anni a predicarne la limitazione. Ad esempio, nel Parlamento italiano dal 1993 le autorizzazioni a procedere sono state fortemente ridotte, anche per pressione dell’opinione pubblica progressista. Vedere oggi la sinistra difendere lo “scudo” per la Salis suscita perplessità in chi sta dall’altra parte. Questa linea argomentativa ha un fine: sottolineare che la decisione pro-Salis non è stata presa per nobile principio, ma per “tifoseria” politica. A riprova, citano il commento amaro dell’ex ministro PD Andrea Orlando: “L’immunità a Salis è uno schiaffo forte del Parlamento UE a Orbán” – percependo quindi la mossa come principalmente punitiva verso Orbán e di conseguenza partigiana, più che imparziale applicazione del diritto. Il fronte dei contrari mette in guardia contro l’effetto boomerang di quanto accaduto. In Ungheria, Orbán userà il caso per alimentare la retorica anti-Ue, presentando l’Europa come complice di “delinquenti di sinistra”, immuni alla legge nazionale. In Italia, già Salvini e altri leader di destra hanno insinuato che “se la sinistra difende Salis, allora vuol dire che approva la sua violenza” – spostando così il discorso dal piano del diritto a quello morale-politico. Il PPE, inoltre, esce spaccato e indebolito: la vicenda evidenzia la “maggioranza ambigua” denunciata nel titolo da Zacchera, dove i popolari appaiono ondivaghi e inaffidabili agli occhi dei partner conservatori. Il rischio sistemico è che in futuro la cooperazione sulla giustizia europea si inceppi, perché i governi – vedendo preludere considerazioni politiche – saranno più restii a fidarsi dell’Europarlamento e magari a eseguire mandati d’arresto UE. In altre parole, un precedente per cui lo Stato A (Ungheria) viene delegittimato potrebbe portare lo Stato B (per esempio la Polonia o altri) a pretendere lo stesso trattamento per i propri rappresentanti o, viceversa, a boicottare richieste provenienti da Stati “avversi”. La giustizia non deve fermarsi di fronte alla rappresentanza popolare, perché farla fermare in nome di considerazioni politiche – ancorché comprensibili – mina la certezza del diritto. Se Ilaria Salis è innocente o vittima di persecuzione, dev’esserlo stabilito in un tribunale, non in un voto parlamentare. Qualsiasi deviazione da questo percorso apre a zone grigie pericolose. Come recita un commento critico: “L’Europa non può avere due pesi e due misure sullo Stato di diritto: se condanna Orbán per le sue violazioni, non deve cadere essa stessa nella tentazione di violare le proprie regole”. Un eurodeputato accusato di violenze pre-elezione va consegnato ai giudici competenti, indipendentemente dal colore politico.
Nina Celli, 9 ottobre 2025