Una specifica declinazione di questa deriva è visibile in quanto avvenuto in Italia, dove il dibattito sui cortei pro-Palestina ha assunto contorni accesi e peculiari. Le misure adottate dal governo italiano e il clima politico creatosi configurano una deriva liberticida preoccupante, che va contrastata. Sin dai primi giorni dopo il 7 ottobre 2023, l’esecutivo Meloni ha assunto una postura di estremo rigore: totale solidarietà a Israele, nessun accenno critico alle sue operazioni militari, immediata stigmatizzazione di ogni protesta filopalestinese interna. Un episodio simbolo è stato il divieto delle manifestazioni del 27 gennaio 2024 (Giorno della Memoria). Come già ricordato, la Comunità Ebraica di Roma – scossa dall’idea di un corteo per Gaza proprio nel giorno dedicato alle vittime della Shoah – ha chiesto ufficialmente al governo di intervenire: “Le istituzioni dicano No a questa marcia antisemita”, sono state le parole senza appello del presidente romano Victor Fadlun. Il ministro Piantedosi non ha esitato: in poche ore ha convocato il Comitato per l’ordine pubblico e inviato una circolare ai Questori perché “sollecitino gli organizzatori a spostare le manifestazioni” ad altra data. Di fatto, i cortei di Roma e Milano (già autorizzati in un primo momento) sono stati vietati il giorno prima, con notifica agli organizzatori di un rinvio coatto al 28 gennaio. Ciò ha provocato l’indignazione di giuristi, attivisti e parte dell’opposizione, che hanno parlato apertamente di “bavaglio”. L’editoriale di Giuliano Granato su “Il Fatto Quotidiano” ha sostenuto che il governo, seguendo questa linea, ha in pratica affermato il principio che “qualunque manifestazione che denunci i crimini di Israele deve essere considerata antisemita”. L’articolista accusa le autorità di aver ridotto il 27 gennaio a “giornata del silenzio”, vietando perfino di diffondere la notizia – arrivata in quelle ore – che la Corte dell’Aia avesse riconosciuto un rischio di genocidio a Gaza. L’Italia è fra i pochi Paesi dove la maggioranza politica ha proposto di tradurre l’indirizzo repressivo in legge. Mentre la Germania emanava risoluzioni parlamentari (come “Never Again is Now”, critica perché rischia di tagliare fondi a progetti artistici sgraditi a Israele), in Senato a Roma è arrivato un disegno di legge che, di fatto, mira a criminalizzare l’antisionismo. La proposta Romeo (Lega) – come raccontato da “Il Manifesto” – vuole adottare la definizione IHRA e permettere di negare l’autorizzazione a raduni pubblici con potenziale contenuto antisionista. In Commissione, l’opposizione (PD, M5S) ha denunciato che così “ogni critica al governo di Netanyahu e perfino le piazze per chiedere la fine del genocidio verrebbero vietate per legge”, scenario definito “inconcepibile in un Paese democratico” da Laura Boldrini. Parole dure sono arrivate anche dalla senatrice Ileana Malavasi (PD), secondo cui la destra italiana “ha fatto il salto verso la repressione del pensiero”, come negli Stati autocratici, e ci si potrebbe trovare ad arrestare anche figure autorevoli (ha citato provocatoriamente il cardinale Pizzaballa o lo scrittore David Grossman) se esprimono critiche a Israele. Persino dentro la galassia di destra, alcuni (es. ex leghisti del “Patto per il Nord”) hanno biasimato il progetto, sostenendo che così la Lega “si inchina ai diktat di Netanyahu” e paradossalmente “apre le porte al Corano nelle scuole” pur di difendere Israele ad oltranza. Per i sostenitori di questa posizione, questi sviluppi in Italia rappresentano un campanello d’allarme. Un Paese occidentale, formalmente impegnato contro ogni censura durante le proteste in Iran o Russia, sta simultaneamente riducendo gli spazi di dissenso interno su un tema di politica estera. Ci si domanda: domani, approvata la legge Romeo, un semplice cartello “Giustizia per i palestinesi” potrebbe essere motivo di denuncia per antisemitismo? O una conferenza universitaria sulle violazioni in Cisgiordania potrebbe essere annullata perché “filo-Hamas”? Il rischio paventato è che l’Italia scivoli verso una limitazione strutturale della libertà di manifestazione, ben oltre l’emergenza contingente. A preoccupare è anche il contesto simbolico e culturale. L’aver impedito la marcia del 27 gennaio – sottolineano gli attivisti – ha creato un paradosso: nel Giorno della Memoria, istituito per non dimenticare l’orrore di Stato contro minoranze indifese, lo Stato italiano ha messo a tacere chi voleva difendere un popolo sotto attacco, cioè ha impedito di “ricordare per agire”. Oltre alla dimensione politica, c’è quella sociale: la comunità arabo-musulmana in Italia (pur meno numerosa che in Francia o Germania) ha vissuto queste misure come discriminatorie. A Roma e Milano, l’annullamento all’ultimo minuto dei cortei – accompagnato da un massiccio spiegamento di polizia nei quartieri dove vivono molti cittadini di origine egiziana, palestinese o siriana – ha creato frustrazione. Gli organizzatori, spesso associazioni giovanili integrate e apartitiche, si sono detti “sconcertati e delusi dalle istituzioni”. Va notato che, il giorno seguente (28 gennaio), le manifestazioni recuperate si sono comunque tenute senza incidenti, dimostrando che non c’era una minaccia concreta tale da giustificare il panico della vigilia. Tutto ciò porta i pro a concludere che l’azione del governo italiano sia stata più dettata da calcolo ideologico (allinearsi a Israele e dare un segnale alla propria base elettorale) che da reale necessità di sicurezza. Potere al Popolo, in un suo comunicato, ha definito tale approccio “fascistizzazione del dissenso”, e anche figure indipendenti – come i giuristi di Libertà e Giustizia – hanno parlato di violazione dell’articolo 21 della Costituzione (libertà di espressione). Tale visione evidenzia che in Italia il dibattito sui cortei pro-Palestina assume contorni estremi: misure emergenziali, progetti di legge ad hoc, retorica bellicosa. Tutto ciò viene considerato come ingiustificato e pericoloso. L’Italia, già segnata da rigurgiti neofascisti in altri ambiti, rischia – dicono – di tradire la propria storia repubblicana di tutela delle libertà per compiacere interessi geopolitici. Contrastare questa deriva, per i pro, significa salvaguardare i pilastri democratici: la possibilità di manifestare il dissenso e di distinguere nettamente la critica allo Stato di Israele dall’odio antiebraico. Come ha ricordato il presidente Sergio Mattarella in occasione della Giornata della Memoria 2024, “chi ha sofferto non neghi a un altro popolo il suo diritto a uno Stato”. Molti hanno letto queste parole come un monito all’equilibrio: la memoria della Shoah impone di combattere ogni antisemitismo, ma anche di riconoscere i diritti dei palestinesi. Zittire chi manifesta per questi ultimi, allora, appare un tradimento di quello spirito di giustizia universale su cui si fonda la nostra Costituzione. La vicenda italiana, dunque, diventa paradigma di ciò che i pro temono: un uso strumentale dell’allarme antisemitismo per restringere lo spazio democratico. Resistere a tale tendenza è fondamentale per mantenere vivo il pluralismo e la libertà di manifestare nel nostro Paese.
Nina Celli, 2 ottobre 2025