Secondo i fautori delle posizioni favorevoli, l’approccio repressivo adottato da molti governi europei nel 2023-2024 – con divieti generalizzati di manifestare, scioglimenti manu militari dei cortei, arresti preventivi e altre misure eccezionali – costituisce una risposta sproporzionata e controproducente. Invece di arginare l’antisemitismo, tale repressione rischia di radicalizzare ulteriormente il clima, oltre a compromettere diritti fondamentali. Human Rights Watch e Amnesty International hanno entrambe condannato queste misure come eccessive: HRW ha parlato di “restrizioni eccessive alle proteste pro-Palestina” in vari Paesi; Amnesty ha documentato un “preoccupante schema” di abusi, con la polizia che in alcune città europee ha usato tattiche aggressive contro raduni del tutto pacifici. Un esempio estremo citato da Amnesty è quanto accaduto a Berlino il 9 febbraio 2025: durante una marcia per la Palestina, è stato imposto ai partecipanti di parlare solo in tedesco o inglese e chi intonava slogan in arabo è stato disperso con la forza dalla polizia, che tramite altoparlanti sosteneva che “chiunque parli arabo mette a repentaglio la sicurezza pubblica”. Scene simili – degne di uno scenario distopico – sono state riportate anche a Londra, dove ai tifosi di calcio è stato vietato di pubblicare online la frase “From the river to the sea”, o a Vienna, dove un’intera manifestazione è stata proibita preventivamente perché nelle proteste precedenti era stato udito quel coro. I sostenitori di tale punto di vista giudicano questi provvedimenti esorbitanti rispetto ai fini dichiarati: puniscono un’intera comunità di manifestanti per i possibili eccessi di pochi, instaurando di fatto una sorta di “responsabilità collettiva” incompatibile con lo Stato di diritto. Inoltre, la repressione indiscriminata rischia di ottenere l’effetto opposto rispetto a quello voluto. Invece di calmare le tensioni, le acuisce. Molti giovani musulmani europei – spesso già alle prese con problemi di marginalizzazione sociale – percepiscono tali divieti come un’ingiustizia mirata verso di loro, alimentando sentimenti di sfiducia e vittimizzazione. Il Council on American-Islamic Relations ha notato dinamiche analoghe nei Paesi occidentali: se una comunità sente che la propria libertà di espressione viene compressa in modo selettivo, può maturare rancore verso lo Stato e gli ebrei visti come “causa” di questa censura, peggiorando quindi i rapporti intercomunitari. Benjamin Ward, vicedirettore di HRW per l’Europa, ha messo in guardia: “Criminalizzare o vietare simboli palestinesi in modo generalizzato è una risposta discriminatoria e sproporzionata”, che “costituisce un’interferenza ingiustificata con la libertà di espressione”. In Francia, l’ondata di proibizioni iniziali (64 cortei vietati) ha suscitato forti critiche anche da parte di giuristi moderati: il Consiglio di Stato ha dovuto intervenire ripristinando il principio che ogni manifestazione vada valutata caso per caso, non con una censura di massa. Dopo la retromarcia legale, le proteste autorizzate a Parigi si sono svolte senza gravi incidenti (qualche arresto isolato per scritte antisemite e imbrattamenti, ma nulla di ingestibile), a dimostrazione che dialogare con gli organizzatori e porre condizioni precise (percorso, divieti di simboli violenti ecc.) è più efficace che proibire in blocco. Lo stesso Commissario federale tedesco per l’antisemitismo, Felix Klein, pur molto sensibile alla tutela degli ebrei, ha espresso perplessità sui ban indiscriminati dei Länder: ha affermato che “manifestare è un diritto fondamentale” e che vietare tutto in partenza può essere controproducente, invitando invece le autorità a intervenire solo se durante le manifestazioni compaiono davvero contenuti illegali. Un ulteriore argomento è che la repressione cieca finisce per delegittimare la stessa lotta all’antisemitismo. Se si dà l’impressione che “antisemitismo” sia un’etichetta usata per sbarazzarsi di oppositori politici o di voci scomode, l’opinione pubblica potrebbe iniziare a non prendere sul serio le denunce, anche quando sono fondate. Un membro del Parlamento britannico, Clive Lewis, durante il dibattito sul conflitto di Gaza, ha ammonito che bollare come antisemita qualunque protesta antiguerra rischia di generare “cynicism” e di svuotare di significato le vere allerta sul fanatismo antiebraico. In Italia, la senatrice Alessandra Maiorino (M5S) ha definito “strano” il tempismo del disegno di legge Romeo (Lega) sull’antisemitismo, presentato in piena guerra di Gaza: secondo lei, sembra concepito apposta per vietare cortei pro-Palestina più che per effettiva urgenza antirazzista. Ciò suggerisce che si stia sfruttando una comprensibile paura (l’aumento degli atti antisemiti) per introdurre norme liberticide. Questo intreccio è pericoloso: in futuro, altri governi potrebbero invocare motivi analoghi (sicurezza nazionale, prevenzione dell’odio) per soffocare manifestazioni su altre tematiche, creando un precedente di limitazione delle libertà civili. In un editoriale su “The Independent”, la direttrice di Amnesty Erika Guevara-Rosas ha scritto che l’Europa “vanta di essere campionessa di diritti umani, eppure sta mettendo a tacere la solidarietà e normalizzando l’eccezione repressiva”. Piuttosto, sostiene, l’Europa dovrebbe preoccuparsi di punire chi commette genocidi e crimini (riferimento alla condotta israeliana a Gaza) più che chi protesta contro di essi. Da questo punto di vista, vietare o reprimere in massa i cortei pro-Palestina è sproporzionato perché punisce molti innocenti per arginare pochi colpevoli, ed è controproducente perché alimenta tensioni sociali e delegittima la causa della lotta all’odio. Meglio sarebbe un approccio equilibrato: autorizzare le manifestazioni pacifiche prevedendo però una vigilanza stretta e l’arresto mirato di chi eventualmente vi compia reati (istigazione all’odio, violenze, vandalismi). Questa strategia chirurgica centrerebbe il doppio obiettivo di tutelare sia la sicurezza della comunità ebraica sia i diritti civili di milioni di cittadini che hanno a cuore la pace in Medio Oriente. Come sintetizzato da Human Rights Watch, le autorità devono “assicurare che le risposte di sicurezza non danneggino i diritti” e possono combattere contemporaneamente antisemitismo e islamofobia senza “soffocare il dissenso democratico”. La repressione generalizzata, al contrario, rischia di avvicinare l’Europa a quegli scenari illiberali che pretende di condannare.
Nina Celli, 2 ottobre 2025