Un ulteriore asse argomentativo della posizione contro risiede nell’idea che le restrizioni imposte alle manifestazioni pro-Palestina costituiscano una forma di legittima difesa democratica di fronte a un pericolo immediato di disordini e violenze a sfondo antisemita. I contrari respingono l’accusa di “censura illiberale”, sostenendo invece che il contesto eccezionale creatosi dopo l’7 ottobre 2023 richiedeva risposte eccezionali ma proporzionate al rischio. L’ondata emotiva scatenata dalla guerra in Gaza ha creato una situazione potenzialmente esplosiva nelle società europee, con un crescendo simultaneo sia di antisemitismo sia di tensioni intercomunitarie (ebrei vs musulmani). In tale scenario, evitare perdite di controllo e incidenti gravi era prioritario. Olaf Scholz, parlando al Parlamento tedesco, ha ricordato le “scene vergognose” di persone che nelle strade tedesche esultavano per atti terroristici contro ebrei, definendole intollerabili e annunciando che la Germania avrebbe usato “tutta la forza dello Stato di diritto” per impedirne la reiterazione. Questo messaggio – “tolleranza zero” – è stato recepito un po’ ovunque. Nel Regno Unito, la ministra dell’Interno Suella Braverman ha scritto ai capi della polizia invitandoli a considerare certi slogan (“From the river to the sea”, ad esempio) come possibili reati di incitamento e ad agire di conseguenza. Queste indicazioni non rappresentano affatto una deriva autoritaria, bensì l’applicazione delle leggi vigenti sull’hate speech e la sicurezza pubblica in un frangente delicatissimo. I governi che hanno agito (Francia, Germania, Italia, Austria ecc.), lo hanno fatto sulla base di precisi indizi di pericolo. Non si è trattato di zittire un’opinione sgradita, ma di prevenire concreta violenza. In Francia, ad esempio, il divieto generalizzato decretato da Darmanin si fondava su rapporti dell’intelligence che segnalavano come alle manifestazioni pro-Palestina si sarebbero uniti “elementi radicali dell’ultrasinistra e dell’islamismo” pronti a scontri. Tali rapporti evidenziavano il rischio di “apologie del terrorismo” e atti antisemiti durante i raduni. È un fatto che nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre 2025 vi siano stati in Francia decine di arresti per minacce contro scuole ebraiche, aggressioni verbali e un tentato assalto a un negozio kosher. In questo clima, attendere passivamente lo svolgersi di cortei potenzialmente infiammabili sarebbe stata una grave negligenza. Anche in Italia, la decisione di bloccare la manifestazione del 27 gennaio 2024 non è nata dal nulla: pochi giorni prima, a fine dicembre, i servizi segreti avevano diffuso una nota sulle possibili “azioni ostili di lupi solitari in reazione alla guerra di Gaza”. Inoltre, la coincidenza con la Giornata della Memoria rendeva le piazze ancora più sensibili: come ha scritto in un tweet la Comunità Ebraica di Milano, “autorizzare cortei pro-Palestina il 27 gennaio sarebbe uno schiaffo alla Memoria e un rischio per la sicurezza delle cerimonie”. Il ministro Piantedosi, nella conferenza stampa in cui ha difeso la scelta, ha dichiarato: “Garantiremo ogni libera espressione, ma non celebrazioni di eccidi. Spostare di un giorno non è negare la libertà di manifestare”. Queste parole riflettono l’approccio prudenziale: evitare solo le date e situazioni più provocatorie (come appunto il 27 gennaio, sacro per gli ebrei italiani), lasciando ai manifestanti la possibilità di esprimersi comunque in altro momento. I contrari trovano questa linea equilibrata: hanno definito “di buon senso” la decisione di Piantedosi, poiché ha scongiurato il rischio concreto di tensioni o contrapposizioni per strada tra partecipanti ai cortei pro-Palestina e partecipanti alle commemorazioni della Shoah. In Parlamento, i partiti di governo hanno compattamente applaudito il Viminale per aver evitato quella che poteva diventare una “triste giornata di divisione nazionale”. Da un punto di vista giuridico, i contrari ricordano che le libertà di espressione e manifestazione non sono assolute: possono essere limitate per motivi di ordine pubblico o tutela di diritti altrui (come la dignità e l’incolumità di una minoranza). Esiste ampia giurisprudenza, anche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che convalida scioglimenti di manifestazioni razziste o divieti di eventi se c’è un rischio serio di violenze. Nel caso delle proteste pro-Palestina, i governi hanno ritenuto – suffragati dai fatti – che quel rischio esistesse. Del resto, vari cortei autorizzati sono degenerati: a Bruxelles, a fine ottobre 2023, una marcia è finita con assalti a negozi nel quartiere ebraico e 15 arresti. A Sydney, in Australia (altro scenario occidentale comparabile), durante un raduno pro-Gaza alcuni individui hanno gridato “Gas the Jews” davanti alla Opera House, costringendo la polizia a intervenire e il governo a condannare fermamente l’accaduto. Questi esempi confermano che non si tratta di timori astratti: il pericolo di violenze antisemite è stato ed è tangibile. Dunque, meglio qualche divieto in più che una sinagoga bruciata o un manifestante linciato. Le misure repressive hanno in buona parte funzionato nel loro intento. In Francia, nonostante le tensioni iniziali, non si sono poi registrati gravi incidenti grazie all’azione preventiva delle autorità. In Germania, i sette divieti a Berlino hanno impedito che manifestazioni non autorizzate dilagassero in scontri: quando piccoli gruppi hanno provato a radunarsi sfidando il bando, la polizia li ha dispersi rapidamente, evitando escalation. Anche in Italia, dopo il giro di vite di fine 2023, le piazze pro-Palestina sono andate gradualmente sgonfiandosi e – dal punto di vista della sicurezza – non si sono registrati episodi di violenza rilevanti. Il Ministro della Difesa Crosetto ha affermato a dicembre: “Abbiamo evitato che il conflitto mediorientale si importasse nelle nostre strade. Era questo l’obiettivo e lo abbiamo raggiunto”. Dal canto loro, i rappresentanti della comunità ebraica hanno espresso sollievo: a distanza di un anno dal 7 ottobre, il presidente dell’Unione Ebraica Europea Ariel Muzicant ha dichiarato che “la rapida reazione dei governi europei ha impedito tragedie. Certo, l’antisemitismo è aumentato, ma senza quelle misure sarebbe andata molto peggio”. Dunque, vietare o limitare i cortei pro-Palestina durante l’emergenza 2023-2024 è stata una scelta dolorosa ma giustificata. Non per censurare un’opinione politica, bensì per evitare che quell’opinione venisse sfruttata come copertura per propagare odio antiebraico e violenza. In altri termini, si è trattato di immunizzare la società democratica contro un attacco al suo tessuto coesivo: l’antisemitismo, in qualunque forma, è infatti un veleno sociale che, se tollerato, può condurre a gravi conflitti interni. Le democrazie liberali hanno non solo il diritto, ma il dovere di difendersi da simili derive. Come recita la massima attribuita a Karl Popper, il filosofo della società aperta: “Non si può essere tolleranti con gli intolleranti”. Permettere manifestazioni in cui si finisce per inneggiare all’odio contro gli ebrei sarebbe stato un paradosso per società fondate sul “Mai Più”. Pertanto, strumenti come i divieti, gli arresti preventivi e l’uso fermo della forza contro i facinorosi vengono considerati non un tradimento della democrazia, ma un atto di autodifesa di quest’ultima. Un atto temporaneo, emergenziale, calibrato sull’ampiezza della minaccia. Con la speranza – condivisa anche da chi propugna misure dure – che, cessata l’emergenza, si possa tornare a un confronto civile e libero, in cui ciascuno manifesti le proprie idee senza paura e senza far paura agli altri. Ma fino ad allora, la sicurezza e la lotta all’antisemitismo vengono prima.
Nina Celli, 2 ottobre 2025