Un punto cardine della posizione favorevole è la netta distinzione concettuale tra antisemitismo (odio verso gli ebrei in quanto tali) e antisionismo o critica alle politiche dello Stato di Israele. Questa distinzione, riconosciuta da molti storici e filosofi, viene spesso offuscata nel dibattito pubblico, con il rischio di confondere il legittimo dissenso politico con il fanatismo razziale. I sostenitori di tale tesi ricordano che si può essere fermamente contrari all’occupazione dei Territori Palestinesi o alle azioni militari israeliane senza nutrire alcun pregiudizio antiebraico. Ad esempio, esponenti come lo storico ebreo Tony Judt (scomparso nel 2010) o il politologo Noam Chomsky hanno più volte criticato l’equiparazione retorica di antisionismo e antisemitismo, definendola una strumentalizzazione per mettere a tacere i critici di Israele. Nel contesto attuale, questa confusione viene accentuata dall’uso dell’ormai celebre definizione operativa di antisemitismo formulata dall’IHRA (Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto). Tale definizione include, tra gli esempi di antisemitismo, anche la negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico (ad esempio sostenere che l’esistenza di Israele sia un progetto razzista). I fautori di questa tesi evidenziano che l’IHRA, pur animata da buone intenzioni, ha però un carattere non vincolante e una natura volutamente ampia, che rischia di inglobare forme di espressione politica del tutto lecite. La stessa Relatrice Speciale ONU sulla libertà di opinione, Irene Khan, ha espresso forte preoccupazione: nel suo rapporto del 2024 ha definito l’uso della definizione IHRA “inconsistente con il diritto internazionale dei diritti umani”, notando come sia stata impiegata in Europa per “limitare le critiche alle azioni del governo israeliano e le crescenti richieste di porre fine alle violazioni contro i palestinesi”. In altri termini, equiparare in automatico l’antisionismo all’antisemitismo è scorretto e pericoloso: scorretto perché confonde l’identità ebraica, che è multiforme e globale, con le scelte contingenti di uno Stato; pericoloso perché inflaziona il termine “antisemitismo”, rischiando di banalizzarlo e di indebolirne la condanna quando si manifesta davvero. Va ricordato che importanti settori del mondo ebraico stesso non condividono l’identificazione acritica con Israele. Esistono organizzazioni di ebrei progressisti (come Jewish Voice for Peace negli USA o Ebrei Contro l’Occupazione in Italia) che partecipano alle proteste pro-Palestina portando uno striscione chiaro: “Not in our name”. Questi gruppi rivendicano il diritto di dissentire dalle politiche del governo israeliano proprio in nome dei valori etici ebraici, rifiutando l’idea che ciò li renda “ebrei che odiano se stessi” o traditori. Quando, ad esempio, a Berlino nell’ottobre 2023 la polizia ha vietato una manifestazione guidata da ebrei contro la guerra (temendo che tra gli slogan ci fossero messaggi antisionisti), gli organizzatori – l’associazione Jewish Voice for a Just Peace – hanno denunciato l’abuso come doppiamente assurdo: da un lato negava loro, ebrei europei, il diritto di protestare pacificamente; dall’altro presumeva che criticare il governo Netanyahu equivalesse a diffondere odio antiebraico. Questo episodio, citato da “Jewish Currents”, mostra quanto possa essere capziosa e strumentale la confusione tra antisemitismo e dissenso anti-occupazione. I sostenitori di questo punto di vista sottolineano inoltre una distinzione di fondo: l’antisemitismo autentico si manifesta con atti o parole rivolti contro persone di religione o origine ebraica (attacchi a sinagoghe, insulti agli ebrei in quanto ebrei, diffusione di miti complottisti sugli “ebrei potenti” ecc.). Le proteste pro-Palestina, al netto di qualche eccesso verbale isolato, concentrano il loro messaggio su un conflitto geopolitico e sui diritti negati a un popolo specifico (quello palestinese). Uno slogan come “Stop bombing Gaza” o “Libertà per la Palestina” non prende di mira gli ebrei del mondo, bensì critica l’operato di uno Stato. Anche slogan più controversi come “Palestina libera dal fiume al mare” – secondo un’approfondita analisi di “Al Jazeera” – sono intesi dai manifestanti come aspirazione a un futuro di uguaglianza in tutta la regione storica palestinese, non come minaccia di “buttare a mare” gli ebrei. Naturalmente, molto dipende dal contesto e dal tono: se quello stesso slogan venisse usato per incitare alla violenza contro Israele o per negare qualsiasi convivenza possibile, allora sconfinerebbe nell’odio; ma in sé, argomentano gli analisti, non implica necessariamente antisemitismo e infatti è stato usato per decenni anche in ambienti laici e socialisti palestinesi non legati ad ideologie religiose estremiste. Occorre mantenere ben separati i piani. Criticare duramente il sionismo – ad esempio definendo Israele uno “Stato di apartheid” per via del trattamento discriminatorio dei palestinesi, come affermato da ONG internazionali – rientra nel discorso politico legittimo e può essere condivisibile o meno, ma non è di per sé antisemitismo. Lo diventa solo se accompagnato da retorica razziale antiebraica (es. slogan sul “complotto ebraico mondiale” o insulti agli ebrei come popolo), il che fortunatamente rimane minoritario nelle piazze filopalestinesi. Confondere i due livelli, ammonisce Amnesty International, serve solo a “delegittimare qualsiasi sforzo di chiedere conto a Israele delle proprie azioni” e a spostare l’attenzione: invece di discutere nel merito delle accuse (bombardamenti di civili, occupazione, colonie illegali), si etichetta chi protesta come antisemita e si chiude il dialogo. Un approccio del genere è stato definito dagli attivisti come “strumentalizzazione dell’antisemitismo”, dannosa anche per la lotta all’odio. Il Fatto Quotidiano, in un’opinione, ha sintetizzato questa critica: se “tutto è antisemitismo”, nulla lo è davvero – e si finisce col banalizzare il concetto Riconoscere che l’antisionismo (nelle sue forme non violente e non razziste) è distinto dall’antisemitismo è fondamentale per garantire un dibattito pubblico onesto. Significa poter discutere di politica mediorientale – anche aspramente – senza incasellare ogni voce critica come espressione di odio religioso o etnico. Significa, al contempo, isolare e combattere con maggior efficacia i veri antisemiti, che esistono e vanno perseguiti, anziché disperdere gli sforzi colpendo indiscriminatamente movimenti di protesta spesso mossi da intenti morali e non certo antiebraici.
Nina Celli, 2 ottobre 2025