Le piazze pro-Palestina rappresentano, in primo luogo, un esercizio di libertà democratica e di solidarietà verso una popolazione civile colpita dalla guerra. I partecipanti – spesso famiglie, studenti, attivisti per la pace di ogni etnia e anche membri delle comunità ebraiche progressiste – scendono in strada per invocare il rispetto dei diritti umani e il cessate il fuoco, non per seminare odio razziale. Sostenere pubblicamente la causa palestinese significa dare voce a chi denuncia possibili crimini di guerra e chiedere giustizia internazionale. Si tratta di rivendicazioni lecite, tutelate dal diritto alla libertà di espressione e di riunione pacifica sancito dalle costituzioni europee e dalle convenzioni internazionali. Equiparare queste manifestazioni a una minaccia antisemita generalizzata rischia di criminalizzare la dissidenza politica e il dissenso morale. Human Rights Watch, pur riconoscendo la necessità di proteggere gli ebrei da aggressioni, ha ricordato che le autorità devono “proteggere il diritto alla protesta pacifica e all’espressione” anche in momenti delicati. Diversi osservatori notano come la stragrande maggioranza dei cortei filopalestinesi si svolga in modo pacifico: cori come “Stop alla guerra” o “Libertà per Gaza” esprimono preoccupazioni umanitarie legittime e non contengono alcuna incitazione all’odio verso gli ebrei. In molti casi gli organizzatori hanno cura di evitare qualsiasi slogan ambiguo: nelle istruzioni diffuse prima delle manifestazioni, talvolta, si invita esplicitamente a non usare simboli o espressioni che possano offendere la sensibilità ebraica, per mantenere il focus sui diritti umani. Ignorare questa realtà pluralista e dipingere indiscriminatamente ogni protesta pro-Palestina come un “hate rally” significa fare un torto ai principi democratici. Secondo Amnesty International, punire chi esprime solidarietà ai palestinesi “colpisce il cuore della democrazia e dei diritti” e distoglie l’attenzione dalle vere minacce razziste. Anche figure istituzionali moderate hanno difeso la legittimità di queste voci: ad esempio, il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha rimarcato che l’Italia “è contro Hamas, non contro la Palestina”, sottolineando che si può sostenere il popolo palestinese senza per questo giustificare il terrorismo. Le manifestazioni pro-Palestina – quando realmente pacifiche e incentrate su rivendicazioni umanitarie – non andrebbero soffocate bensì protette in quanto espressione del pluralismo democratico. Confonderle con focolai d’odio significa tradire la distinzione fondamentale tra critica politica e incitamento razziale. Numerose testimonianze confermano il carattere pacifico e inclusivo di questi raduni. A Londra, ad esempio, le gigantesche marce dell’ottobre 2023 si sono svolte senza incidenti gravi: vi hanno preso parte anziani delle comunità musulmane, giovani attivisti climatici, sindacalisti ebrei contrari all’occupazione e perfino sopravvissuti dell’Olocausto, uniti nel chiedere la fine delle violenze a Gaza. Al netto di qualche episodio marginale, l’atmosfera prevalente è stata di cordoglio per le vittime civili e di speranza per la pace, con canti tradizionali arabi e interventi di rabbini progressisti sul palco. Ignorare questa realtà e cedere alla tentazione di “vietare per sicurezza” rischia di creare un pericoloso precedente: oggi colpisce chi manifesta per Gaza, domani potrebbe colpire altre cause scomode, inibendo la partecipazione civica. Come ha scritto un gruppo di accademici e giuristi europei, reagire all’estremismo limitando le libertà fondamentali è una vittoria postuma per i terroristi, perché indebolisce dall’interno le società aperte che essi vogliono spaventare. I cortei pro-Palestina – quando non configurino reati specifici – devono poter aver luogo, eventualmente accompagnati da misure di sicurezza mirate (presenza di forze dell’ordine, monitoraggio di frange violente), ma senza divieti generalizzati. Solo così si onora il principio che la miglior risposta all’odio non è il silenzio imposto, bensì più democrazia e più dialogo. Reprimere chi chiede pace rischia di alimentare frustrazione e radicalizzazione, mentre consentire proteste civili permette anche di isolare e identificare più facilmente eventuali estremisti, perseguendoli individualmente. In definitiva, difendere la libertà di manifestare per la Palestina significa difendere i valori fondamentali di una società democratica – valori che includono certamente la lotta all’antisemitismo, ma anche il diritto di ogni comunità oppressa di vedersi riconosciuta.
Nina Celli, 2 ottobre 2025