La legittimità del processo rimane incerta. L’esclusione dell’Autorità Palestinese dai negoziati e la designazione di una governance tecnocratica alimentano la percezione di commissariamento esterno. La stessa AP ha criticato l’accordo definendolo “una sospensione della sovranità palestinese sotto tutela internazionale”. Sul piano sociale, la distanza fra popolazione e nuove autorità provvisorie rischia di amplificare sfiducia e tensioni. Il bilancio aggiornato di oltre 67 000 vittime palestinesi accentua la domanda di giustizia e di riconoscimento politico. Senza un percorso di rappresentanza inclusivo, la tregua può apparire come un atto imposto più che condiviso, con il pericolo di nuove radicalizzazioni. Il piano parla di cessate il fuoco e di ricostruzione, ma non affronta il tema della giustizia né quello dell’assedio. Non è previsto alcun meccanismo per indagare sui crimini di guerra o per garantire risarcimenti. Viene offerta un’amnistia ai membri di Hamas che depongono le armi, mentre nulla è detto sulle responsabilità israeliane per le migliaia di vittime civili. Per la popolazione palestinese, questo rischia di tradursi in una pace senza diritti, percepita come imposta dall’esterno. Per quella israeliana, l’idea di perdonare i militanti di Hamas appare indigesta, soprattutto per le famiglie colpite dal 7 ottobre. Entrambi i lati possono sentirsi traditi. Inoltre, l’assedio che da anni strangola Gaza non verrebbe smantellato, ma solo attenuato con la distribuzione di aiuti. Nulla è detto su porti, aeroporti o corridoi di collegamento con la Cisgiordania. Senza una prospettiva di libertà di movimento, la ricostruzione rischia di essere un’illusione. Infine, la scelta di inserire Tony Blair come figura di supervisione accresce la percezione di un “protettorato” imposto, più che di un’autonomia restituita. Una pace senza giustizia e senza libertà difficilmente può essere duratura.
Nina Celli, 12 ottobre 2025