Il piano propone un’architettura di governance pensata per separare la gestione quotidiana dalle dispute politiche. Gaza sarebbe amministrata da un comitato tecnocratico palestinese, scelto per competenze e non per appartenenza a fazioni, sotto la supervisione di un Consiglio internazionale guidato da Trump. L’obiettivo è garantire continuità dei servizi essenziali—scuole, ospedali, acqua, elettricità—senza che la Striscia cada sotto il controllo di milizie. Parallelamente, una forza internazionale di stabilizzazione composta da paesi arabi e partner internazionali addestrerebbe e affiancherebbe le forze di polizia locali, colmando il vuoto di sicurezza che l’uscita di Hamas lascerebbe inevitabilmente. Da un punto di vista economico, il piano punta a creare una zona economica speciale e a lanciare programmi di sviluppo con il contributo di esperti che in passato hanno partecipato a progetti di modernizzazione nel Medio Oriente. L’idea è di trasformare Gaza da area di crisi permanente a laboratorio di sviluppo, attirando investimenti regionali e creando posti di lavoro. La struttura economica del piano, che prevede la creazione di una zona economica speciale nella Striscia di Gaza e nel Negev, resta uno degli elementi più innovativi e meno contestati. Gli incentivi alla ricostruzione e l’impegno di fondi multilaterali collegano la pace alla prospettiva di sviluppo. Pur non essendovi ancora stati aggiornamenti sostanziali dopo il 1° ottobre 2025, i contatti preliminari fra UE e paesi arabi confermano la disponibilità a finanziare la seconda fase del piano. Se implementata, la road map economica potrebbe consolidare i risultati umanitari e tradurli in crescita sostenibile. Il principio resta quello di una “pace con dividendi”: sicurezza in cambio di sviluppo, sviluppo in cambio di sicurezza.
Nina Celli, 12 ottobre 2025