Nonostante i progressi, il piano conserva zone d’ombra decisive. Le formule di “smilitarizzazione completa” e “ritiro in fasi” mancano di indicatori verificabili e di un arbitro indipendente con poteri esecutivi. Hamas ha dichiarato pubblicamente di non accettare il disarmo come condizione preliminare, limitandosi a garantire la sospensione delle operazioni. In assenza di meccanismi coercitivi, la tregua rischia di cristallizzare un equilibrio provvisorio. Il calendario di dismissione degli arsenali resta non specificato, e nessuna parte terza dispone ancora dell’autorità per certificare l’attuazione. Il risultato potrebbe essere una “pace amministrata”, capace di ridurre le vittime ma non di impedire il riarmo progressivo. Anche dentro Gaza la percezione è simile. Testimonianze raccolte dai media descrivono il piano come “una farsa” o “irrealistico”. Molti temono che Israele ottenga la liberazione degli ostaggi e poi riprenda le operazioni, senza concedere nulla ai palestinesi. È una sfiducia radicata, costruita su anni di cessate il fuoco mai rispettati. Il limite più evidente è la mancanza di un sistema di enforcement multilaterale. Il summit di Sharm el-Sheikh è chiamato a definire il mandato della forza di stabilizzazione, ma alla vigilia non esiste ancora un testo vincolante. Senza poteri coercitivi e sanzioni automatiche, il rispetto degli impegni resta affidato alla volontà politica delle parti. L’assenza di una missione internazionale “duro su duro” con capacità di monitoraggio effettivo lascia aperta la possibilità di violazioni locali e di una ripresa del conflitto non appena le pressioni internazionali diminuiranno. La tregua, pur preziosa per l’impatto umanitario, rischia così di tradursi in una sospensione temporanea del conflitto più che in una soluzione strutturale.
Nina Celli, 12 ottobre 2025