Il successo iniziale del piano si spiega anche con la sua crescente legittimazione diplomatica. Il summit di Sharm el-Sheikh del 13 ottobre 2025, co-presieduto da Donald Trump e dal presidente egiziano al-Sisi, riunisce oltre 30 leader mondiali, tra cui rappresentanti di UE, ONU, Arabia Saudita, Qatar e Turchia. L’ampiezza di questa partecipazione conferisce al processo una dimensione multilaterale che ne rafforza la tenuta. Le dichiarazioni congiunte di UE e ONU, che definiscono la tregua “un passo necessario e verificabile verso la de-escalation”, consolidano la cornice di legittimità internazionale. In tal modo ogni eventuale violazione diventerebbe un costo reputazionale per le parti, mentre la pressione collettiva favorisce la continuità negoziale. Il piano, concepito come iniziativa americana, si trasforma così in una piattaforma condivisa, sostenuta da attori regionali e globali con interessi convergenti nella stabilità. Per la prima volta dopo decenni, paesi arabi e islamici come Egitto, Qatar, Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Indonesia e Pakistan hanno firmato una dichiarazione congiunta di sostegno, definendo gli sforzi del presidente americano “sinceri” e impegnandosi a collaborare. Anche l’Unione Europea e diversi leader occidentali, tra cui Emmanuel Macron e Keir Starmer, hanno espresso apprezzamento e disponibilità a contribuire. Questo sostegno non è solo simbolico: implica finanziamenti, logistica e disponibilità a partecipare a una forza internazionale di stabilizzazione. Significa che non si tratta di un accordo bilaterale fragile, ma di un’iniziativa multilaterale che coinvolge attori capaci di garantire risorse, monitoraggio e pressioni politiche. La posizione di leader come Erdogan, che ha parlato di “pace giusta e duratura”, mostra come anche paesi che avevano rapporti conflittuali con Israele siano pronti a impegnarsi. In Europa, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha definito l’iniziativa “un’opportunità da cogliere”, segnalando che Bruxelles non intende restare spettatrice ma essere partner attivo nella ricostruzione. Questo fronte così ampio crea un effetto di isolamento per chiunque voglia sabotare l’intesa. Per Hamas, rifiutare il piano avrebbe significato esporsi a critiche, non solo da parte dei tradizionali nemici, ma anche di paesi arabi amici e sostenitori storici. Per Israele, rompere gli impegni significherebbe incrinare rapporti diplomatici appena ricuciti. In entrambi i casi, il costo politico di un eventuale sabotaggio diventa più alto. La convergenza internazionale riduce anche il rischio di un collasso del processo nella fase di implementazione. Se in passato le tregue sono fallite per mancanza di sponsor esterni, qui la presenza di una coalizione trans-regionale rende più probabile che l’accordo possa essere monitorato, corretto e sostenuto nel tempo.
Nina Celli, 12 ottobre 2025