L’allarme droni si inserisce in una cornice comunicativa che presenta la Russia come una minaccia continua e totalizzante. Non si tratta solo di condanna politica, ma di una rappresentazione che trasforma ogni episodio ambiguo in segnale di aggressione. Questo produce due effetti: da un lato divide l’opinione pubblica in blocchi contrapposti, dall’altro rende accettabili misure straordinarie come nuove sanzioni, restrizioni di volo e spese militari eccezionali. Gli scettici osservano che lo stesso meccanismo si ritrova nei media russi: ogni allarme in Europa è liquidato come “isteria”. Così entrambe le parti usano la paura come strumento politico. Inoltre, notano che il profilo dei droni caduti in Polonia e Romania – velivoli leggeri, spesso senza esplosivo, precipitati in zone rurali – non corrisponde all’immagine di “attacco gravissimo”. Se davvero l’intenzione fosse stata colpire, perché non impiegare mezzi più efficaci? L’ipotesi più plausibile è che il valore dei droni sia stato soprattutto psicologico: spingere l’Europa a reagire in modo sproporzionato. In questa lettura, etichette forti come “atto di aggressione” o “mai visto prima” finiscono per consolidare uno stato di emergenza permanente. Ciò serve alla politica interna – che si presenta come baluardo di fronte al pericolo – e all’industria della difesa, che ottiene commesse rapide. Condannare l’invasione russa non significa automaticamente accettare ogni narrativa emergenziale: serve rigore nelle prove e cautela nel linguaggio. La vera guerra psicologica è riuscire a indurre l’avversario – e noi stessi – a vivere costantemente nella paura.
Nina Celli, 28 settembre 2025