Gli allarmi droni sono parte di un mosaico più ampio che implica violazioni aeree nel Baltico, episodi sospetti su piattaforme energetiche, cyberattacchi e campagne di disinformazione. Il filo conduttore è spingere l’Europa a vivere in un clima di incertezza, aumentare i costi di difesa e dividere gli alleati. I droni sono lo strumento ideale: sono economici, facili da negare e capaci di provocare effetti a catena – dai ritardi aerei all’ansia sociale. Considerare l’episodio come pura narrativa è ingenuo: la confusione è parte integrante della strategia russa, che usa l’ambiguità come arma. Combattere questa guerra “ibrida” significa trattare anche la comunicazione come un campo di battaglia, con messaggi coerenti e attribuzioni rapide ma prudenti. Bisogna inoltre prevedere risposte graduali: ogni nuova violazione deve avere un costo crescente. Sul piano interno, si propongono misure di resilienza: piani locali anti-drone, educazione dei cittadini per ridurre il panico, contrasto alle campagne di disinformazione. Sul piano esterno, serve coordinamento stretto con Kiev, che ha acquisito esperienza diretta nella difesa. La logica è quella della prudenza asimmetrica: meglio rischiare di sovrastimare la minaccia che sottovalutarla. Solo così si può spezzare il ciclo di provocazioni. L’incidente dei droni ha mostrato un problema di fondo: l’Europa ha usato armi costosissime per neutralizzare velivoli dal valore irrisorio. È una vittoria tattica, ma una sconfitta strategica. Se Mosca può produrre droni a basso costo in quantità, costringerà la NATO a consumare risorse sproporzionate. Per evitarlo, servono tre azioni. Primo: potenziare la tecnologia, affiancando ai grandi radar sistemi più semplici e poco costosi (telecamere, sensori radio, artiglierie leggere, disturbatori elettronici) che possano abbattere i droni senza mandare in volo caccia da milioni di euro. Secondo: snellire le procedure, permettendo alle unità sul campo di reagire rapidamente senza attendere ordini complessi ed esercitarsi su scenari realistici, con sciami di droni o satelliti che ingannano i sistemi GPS. Terzo: proteggere gli spazi civili – aeroporti, porti, centrali – con piani dedicati, stabilendo chi deve intervenire e con quali strumenti. Alcuni esperti sostengono che non è allarmismo, ma buon senso: il drone è un’arma economica e adattabile, e quindi occorre una risposta capillare e flessibile. Servono programmi europei comuni di ricerca e sviluppo, prove pratiche e regole rapide per introdurre nuove soluzioni. Così la difesa non diventa solo un “tappabuchi” ma un investimento efficiente. Inoltre, importante spiegare ai cittadini perché e come vengono spese risorse: rendere chiaro, per esempio, che acquistare batterie leggere di cannoni significa risparmiare milioni in missili. La difesa dai droni deve essere vista come un bene pubblico, che serve a tutti e indipendentemente dalla geopolitica: riduce la vulnerabilità e rende più sostenibile la risposta. L’incidente, dunque, ha insegnato cosa non fare (sprecare missili su droni economici) e cosa fare (costruire una rete di difese diffuse, economiche e locali).
Nina Celli, 28 settembre 2025