I sostenitori di questa tesi ritengono che l’“allarme droni” sia stato in parte costruito attraverso narrazioni orchestrate o amplificate, fino a includere ipotesi di false flag. Il cuore dell’argomento non è “dimostrare” un complotto—che per definizione sarebbe difficilmente verificabile—ma evidenziare pattern comunicativi ricorrenti: immediata attribuzione di responsabilità a Mosca, assenza di evidenze tecniche pubbliche univoche (seriali, componenti tracciabili) e forte sincronia mediatica su frame allarmistici. Secondo questa lettura, la circolazione a specchio di contenuti identici su social e canali di area filorussa o filo-atlantista mostrerebbe che entrambi i fronti operano in un ecosistema informativo polarizzato, inclinato alla “guerra cognitiva”: prima si fissa la narrativa, poi si cercano i riscontri. In questo contesto proliferano le ipotesi “speculari”: chi è scettico verso l’Occidente suggerisce che Kiev o Varsavia possano aver messo in scena incursioni con droni-esca, così da cementare l’unità NATO e sbloccare nuovi aiuti; al contrario, chi è scettico verso la Russia vede un test deliberato del Cremlino, magari progettato per forzare la NATO a consumare munizionamento costoso. Entrambe le versioni hanno un elemento in comune: strumentalità politica. A prova della permeabilità del discorso pubblico, citano i casi in cui ipotesi azzardate diventano, per qualche ora, “spiegazioni” riprese da talk show e post virali; oppure i casi in cui smentite tardive (perizie tecniche, rettifiche) non recuperano l’effetto d’opinione già generato. A livello tattico, questa teoria insiste sul fatto che droni rudimentali e non armati abbiano capacità soprattutto psicologiche: sorvoli che non colpiscono nulla, ma impongono reazioni (chiusure aeroporti, scramble di caccia, allarmi per i cittadini). In un ecosistema mediatico che premia l’eccezionale, basta il rumore comunicativo per ottenere l’effetto politico: sostegno a misure di emergenza, spese straordinarie, centralizzazione decisionale in nome della sicurezza. Il precedente del missile del 2022 in Polonia, prima attribuito alla Russia e poi riassegnato all’Ucraina, è un monito: l’errore di attribuzione è sempre possibile in tempo reale; per questo, gonfiare subito una pista rischia di essere parte di un ciclo securitario autoalimentato. La retorica della “finestra di escalation” è funzionale a molte agende: governi che cercano coesione interna, opposizioni che vogliono mettere in difficoltà l’esecutivo, attori esterni interessati a spostare l’attenzione o i costi. Se l’obiettivo—da una parte o dall’altra—è influenzare la postura dell’UE (più sanzioni, più difesa, più prudenza, più compromesso), allora l’“allarme droni” diventa una leva narrativa tanto quanto un fatto militare. Il punto, dunque, non è negare la possibilità di intrusioni reali, ma mostrare come la loro rappresentazione costituisca una strategia comunicativa che precede e condiziona la valutazione tecnica, con esiti politici prevedibili: paura, chiusura dello spazio pubblico al dissenso, priorità di bilancio rimodulate a favore della difesa.
Nina Celli, 28 settembre 2025