Un’ulteriore punto di vista sposta il focus dal taser in sé al contesto di utilizzo, argomentando che l’introduzione di questa arma rischia di essere un palliativo tecnologico a problemi che dovrebbero invece essere affrontati con metodi diversi: maggiore formazione del personale, protocolli di intervento multidisciplinari e investimenti in risorse umane (mediatori, sanitari) invece che in armamenti. Molti dei casi in cui la polizia si trova a usare la forza – notano i detrattori – riguardano persone con disturbi psichiatrici, crisi di panico, tentativi di suicidio, oppure individui in stato di alterazione dovuto ad alcol o droga. In queste situazioni, dotare gli agenti di un taser può sembrare offrire una soluzione rapida, ma è una risposta semplicistica che non risolve il problema di fondo e anzi può aggravarlo. Irene Testa sottolinea: “cosa facciamo, il Far West?”, riferendosi al pericolo di affidarsi solo a strumenti coercitivi invece di predisporre squadre miste con psicologi, psichiatri o negoziatori per gestire chi è fuori controllo a causa di un malessere. Un intervento di polizia accompagnato da un medico avrebbe, in molti casi, migliori chance di risolvere senza violenza situazioni critiche: ad esempio calmando un esagitato con parole rassicuranti o, se necessario, con un sedativo somministrato da un sanitario, piuttosto che sparandogli scariche elettriche che possono esasperarne la reazione. I critici evidenziano come in diversi Paesi si stiano adottando approcci innovativi di de-escalation, formando gli agenti a trattare con persone in crisi senza ricorrere subito alla forza. Investire in questi approcci richiede tempo e risorse; al contrario, fornire un taser a ogni pattuglia può apparire una scorciatoia. Ma questa scorciatoia – avvertono – presenta il conto: “se il soggetto si sente braccato e prova forti dolori [dal taser], può reagire in modo ancora più scomposto”, osserva Testa. Dunque, l’arma elettrica potrebbe perfino esacerbare certe situazioni invece di risolverle, soprattutto se l’individuo è in preda a un delirio o non è pienamente cosciente delle proprie azioni. La cronaca offre esempi anche in tal senso: nel caso di Winston Smith (nome di fantasia) a Minneapolis, un uomo affetto da disturbo bipolare venne colpito da taser durante una crisi e poi sparò contro gli agenti; si aprì il dibattito se il taser avesse scatenato una reazione imprevedibile in un soggetto mentalmente instabile. Sul fronte della formazione, i critici in Italia lamentano che non sia stata sufficientemente approfondita. Si chiedono: quanti e quali operatori sono stati formati? Che durata ha avuto il training? Irene Testa evidenzia la mancanza di trasparenza su questo: “non si sa […] quanto dura il corso per preparare il personale all’uso dell’arma”. Se il corso è troppo breve o teorico, c’è il rischio che l’operatore sul campo – magari giovane e con poca esperienza – abusi del taser per eccesso di zelo o paura, laddove un collega più formato tenterebbe prima altre vie. Un adeguato addestramento dovrebbe insegnare a riconoscere i segnali di una emergenza sanitaria vs. criminale: per esempio, un soggetto in preda a un episodio psicotico non va affrontato come un delinquente aggressivo, ma come una persona da proteggere anche da se stessa. Utilizzare un taser su di lui potrebbe costituire “una scorciatoia che in realtà è un vicolo cieco”, commentano alcuni esperti di salute mentale. Inoltre, l’adozione del taser potrebbe distogliere l’attenzione dalle riforme necessarie nelle forze di polizia. Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi (diciottenne morto nel 2005 durante un fermo violento), in occasione dell’introduzione del taser nel 2022 dichiarò: “più che nuove armi servirebbero formazione psico-fisica e consapevolezza democratica” tra gli agenti. Questo punto è cruciale: diversi abusi o tragedie in operazioni di polizia sono avvenuti per errori procedurali, mancanza di self-control o preparazione inadeguata degli operatori, non per assenza di strumenti coercitivi. Ad esempio, nel caso Aldrovandi non c’era certo carenza di manganelli – fu l’eccesso di violenza a causare la morte del ragazzo. Analogamente, nel pestaggio del carcere di Santa Maria Capua Vetere (2020), citato spesso nel dibattito, le forze dell’ordine hanno commesso abusi gravissimi usando celerini e sfollagente: fornire un taser a quelle stesse unità non avrebbe risolto nulla, forse avrebbe aggiunto un ulteriore mezzo di sopraffazione. Luigi Manconi (attivista per i diritti umani) osserva che introdurre i taser senza prima affrontare problemi strutturali (come la formazione sui diritti umani e la gestione del conflitto) rischia di essere un provvedimento di facciata. I critici ricordano che nel 2017-2018, all’epoca della sperimentazione, invece di investire in un monitoraggio indipendente degli effetti del taser, l’allora governo scelse di promulgare una legge che escludeva il reato di tortura nei casi di uso legittimo di armi come il taser (una norma contestata perché apparve come uno “scudo” per l’arma nuova). Questo clima legislativo, a loro avviso, non ispira fiducia sul fatto che vengano individuati e sanzionati eventuali errori nell’uso del taser. Una serie di oppositori (in particolare nell’area politica di sinistra) chiede ora una moratoria: dopo i decessi di Olbia e Genova, esponenti di Alleanza Verdi-Sinistra e del Movimento 5 Stelle hanno invocato la sospensione nazionale dei taser in attesa di verificarne la sicurezza. Secondo la sen. Stefania Pucciarelli (opposizione, già sottosegretario alla Difesa), non si possono “strumentalizzare episodi drammatici per minare la credibilità di chi rischia la vita ogni giorno”, ma al contempo è doveroso chiedersi se la dotazione di taser a tappeto sia la strada giusta. In altre parole, per i critici serve un ripensamento generale: potenziare le dotazioni non letali può essere utile solo se accompagnato da riforme profonde nelle modalità di intervento e da una riduzione dell’uso della forza in favore di tecniche di negoziazione. Finché ciò non avverrà, introdurre nuovi strumenti rischia di essere controproducente. La tesi contraria conclude quindi che lo Stato dovrebbe investire meno in armi e più in formazione e risorse umane: psicologi, mediatori culturali, corsi di gestione dello stress per gli agenti, conoscenze medico-sanitarie di base in ogni pattuglia. Queste sarebbero le “armi” più efficaci per evitare sia di dover sparare con la pistola, sia di dover ricorrere al taser. In sostanza, più testa e meno taser: uno slogan citato da alcuni attivisti per indicare che l’ordine pubblico si tutela meglio con poliziotti formati a capire le situazioni, anziché equipaggiati con un arsenale sempre più ricco ma potenzialmente dannoso.
Nina Celli, 23 settembre 2025