Le organizzazioni per i diritti umani e diversi osservatori denunciano che il taser tende ad essere impiegato anche quando non strettamente necessario, spesso su persone in condizioni di fragilità, configurando potenziali abusi e violazioni dei diritti. Amnesty International ha più volte evidenziato un pattern preoccupante: le armi a scarica elettrica vengono talvolta usate in modo discriminatorio o eccessivo “nei confronti di persone vulnerabili o che non rappresentano una minaccia seria e immediata”. Ciò significa che invece di riservarle a situazioni estreme (es. aggressore armato in procinto di ferire qualcuno), in vari Paesi le forze dell’ordine hanno impiegato il taser su individui già controllati o che opponevano resistenza passiva. Un’inchiesta condotta negli Stati Uniti ha rivelato come molte vittime del taser appartenessero a minoranze marginalizzate (in primis comunità afroamericane), alimentando il sospetto che vi sia un uso improprio mirato di questi strumenti contro gruppi vulnerabili o poco tutelati. Anche in Europa Amnesty ha documentato casi di abuso in Polonia, negli Stati Baltici e persino in Italia: nel 2016 risultò che alcuni migranti appena sbarcati a Pozzallo erano stati minacciati o colpiti con taser dagli addetti alla sicurezza, nonostante fossero semplicemente in condizione di tensione dopo la traversata. I detrattori temono che considerare il taser “meno pericoloso” porti gli agenti a farne ricorso troppo facilmente, in situazioni dove invece servirebbe pazienza e capacità di de-escalation. Un importante studio dell’associazione legale Strali (2023) ha analizzato decine di interventi con taser in Italia, concludendo che in generale l’uso del taser ha sostituito più l’uso delle mani che quello delle armi da fuoco. In pochissimi casi – afferma Strali – la situazione era tale da giustificare uno sparo di pistola; più spesso i taser sono stati usati su soggetti che avrebbero potuto essere contenuti anche senza armi letali. Questo dato ribalta la narrativa pro: invece di essere utilizzato al posto della pistola in casi di pericolo estremo (come scenario ideale), il taser viene utilizzato in aggiunta dove prima si interveniva con metodi blandi (persuasione, forza fisica controllata). Ciò comporta un rischio di eccessi di forza. Ad esempio, viene menzionato che molti interventi con taser riguardano persone con disturbi psichiatrici o sotto pesante effetto di droghe. In tali casi spesso sarebbe opportuno adottare strategie diverse (intervento di sanitari, contenimento calmo), ma la presenza del taser può indurre gli agenti a risolvere rapidamente la situazione con una scarica elettrica. Purtroppo, queste categorie di soggetti sono proprio quelle più a rischio di subire danni gravi dal taser – come evidenziato nella tesi precedente – il che crea un paradosso per cui chi è più vulnerabile finisce per essere colpito di più e con conseguenze peggiori. La morte a Chieti del 35enne Simone (affetto da problemi mentali) dopo un intervento con taser è vista come tragica conferma di ciò. Altro ambito di potenziale abuso è la fase di arresto: diversi video internazionali mostrano persone già a terra e circondate da agenti, colpite comunque da ulteriori scariche di taser come strumento punitivo o per ottenere sottomissione rapida. Questo è contrario alle regole, ma succede – e il timore è che possa accadere anche in Italia in mancanza di trasparenza. A tal proposito, Amnesty Italia (Riccardo Noury) lamenta la scarsità di informazioni e dati pubblici sull’uso del taser da parte delle forze dell’ordine italiane. Senza dati granulari, è difficile monitorare eventuali abusi o imparare dalle criticità. I critici sostengono inoltre che l’adozione del taser abbia in alcuni casi un significato simbolico di “mano dura” che può incoraggiare atteggiamenti aggressivi. Ad esempio, nel 2022-2023 diversi comuni (Roma, Milano) hanno visto pressioni politiche per dotare la Polizia locale di taser come “risposta” al degrado urbano. In un articolo su “Il Manifesto” si definiva il taser il “feticcio dei cultori della tolleranza zero di scuola statunitense”, suggerendo che dietro la spinta a introdurlo ovunque vi sia una mentalità repressiva più che reali esigenze operative. Irene Testa afferma che “la questione è complessa e non va strumentalizzata”, esprimendo timore che si stia affrontando il disagio psicosociale con il metodo spiccio dell’elettroshock anziché con politiche di cura e prevenzione. In aggiunta, definire il taser “arma di ordinanza” (come fatto dal governo Conte II nel 2020) e addestrare migliaia di agenti al suo uso potrebbe portare a una normalizzazione: ciò che era straordinario diventa routinario. Noury di Amnesty teme proprio questo: che col tempo si consideri accettabile vedere manifestanti o studenti storditi a terra invece che manganellati – “la situazione mi spaventa”, dice. In sintesi, i contrari sostengono che il taser presti il fianco a usi eccessivi o impropri, specialmente su chi non è in grado di difendersi (malati, persone confuse, minoranze). Viene citata anche l’ipotesi – per ora scongiurata – di introdurlo nelle carceri: un’idea lanciata da esponenti della Lega e giudicata da Antigone “estremamente pericolosa”, perché dare taser alla polizia penitenziaria aprirebbe la porta a potenziali abusi verso detenuti, categoria per definizione vulnerabile e in potere totale degli agenti. Fortunatamente, nota Testa, il governo ha frenato su questo (nessun taser in carcere per ora), ma il solo averlo proposto indica come si rischi di spingersi oltre. Per i critici, la conclusione è netta: il taser è uno strumento che facilita l’abuso di forza e che rischia di colpire proprio le persone più fragili, in violazione dei loro diritti fondamentali. Per questo ne chiedono la sospensione o comunque una fortissima limitazione d’uso, riservandolo a casi rari e davvero estremi (sempre con monitoraggio indipendente).
Nina Celli, 23 settembre 2025