Una delle obiezioni più forti e immediate all’eugenetica moderna è che essa condurrebbe a nuove forme di disuguaglianza e discriminazione, amplificando i divari già esistenti nella società. I critici avvertono che l’accesso alle tecnologie di editing genetico e selezione embrionale sarebbe inevitabilmente determinato dal potere economico: “solo i ricchi potrebbero permettersele”, quantomeno nelle fasi iniziali, creando una classe privilegiata geneticamente ottimizzata contrapposta a una maggioranza di persone “non potenziate”. Questo scenario da incubo è stato definito come società degli “haves and have-nots genetici”: i “genetic have-nots” (coloro i cui genitori non hanno potuto o voluto usare i miglioramenti genetici) rischierebbero di essere considerati cittadini di serie B, tagliati fuori da opportunità. “Immaginate un mondo in cui i colloqui di lavoro o le ammissioni universitarie tengano conto del tuo corredo genetico”, scrivono con preoccupazione attivisti anti-eugenetici. Già oggi esistono disparità enormi nell’accesso alla sanità e all’istruzione; l’eugenetica liberale potrebbe “congelarle” a livello biologico, rendendole virtualmente insormontabili. Un esempio spesso citato è quello delle compagnie di assicurazione e datori di lavoro: se la modifica genetica diventasse diffusa, assicuratori sanitari potrebbero penalizzare chi non l’ha fatta (perché considerato a rischio malattie) o le aziende top potrebbero richiedere indirettamente certe “caratteristiche ottimali” (es. resistenza allo stress) presenti solo in candidati geneticamente selezionati. Verrebbe così meno il principio che tutti nascono uguali in dignità e diritti: verrebbe rimpiazzato da un “geneticismo” spietato, dove il valore di una persona (o almeno la percezione sociale di esso) dipende dal suo genoma. Questo ricalca pericolosamente il concetto di “fitness” biologica tanto caro ai primi eugenisti, sebbene mascherato da libera scelta. Claire Robinson di “GMWatch” enfatizza che legalizzare l’editing ereditario porterebbe inevitabilmente a una società eugenetica di privilegiati vs svantaggiati, con i primi in grado di “acquistare” per i figli IQ più alto, resistenza fisica, bellezza ecc., e i secondi destinati a essere superati in ogni ambito competitivo – un sistema che lei paragona a un’apartheid genetica. Inoltre, questa tesi evidenzia come l’eugenetica moderna finirebbe per alimentare discriminazioni su base sanitaria e abilistica. Le persone con disabilità o malattie genetiche potrebbero essere viste sempre più come “errori evitabili”, invece che come individui da integrare e valorizzare. Il timore espresso da numerose associazioni di disabili è che l’adozione diffusa di screening genetici ed editing mandi il messaggio sociale che “certe vite non meritano di essere vissute”, perché se ne preferisce la non nascita. Stop Designer Babies e altre coalizioni per i diritti dei disabili parlano di “velvet eugenics”: una eugenetica soffice, non violenta come nel passato, ma ugualmente decisa a “eliminare la diversità umana considerata indesiderabile”. Ad esempio, la pressoché totale scomparsa delle nascite di bambini con sindrome di Down in alcuni paesi (come l’Islanda), grazie allo screening prenatale, è vista da molti attivisti non come un successo medico, ma come un segnale allarmante di abilismo istituzionalizzato: una società che, invece di accogliere e supportare le persone con trisomia 21, preferisce che non nascano affatto. La scrittrice e attivista disabile Rosemarie Garland-Thomson avverte che questo atteggiamento crea un “futuro in cui la disabilità sarà concepita solo come qualcosa da cancellare”, e quindi i disabili esistenti possono essere ancora più stigmatizzati. Anche sul fronte delle discriminazioni etniche e di classe, i critici intravedono pericoli concreti. Se le tecniche di miglioramento genetico diventassero la norma in società ricche, le popolazioni dei paesi poveri – che non potrebbero accedervi – verrebbero percepite come geneticamente inferiori. “L’eugenetica, con il suo postulato di una diseguaglianza ontologica tra individui, sarebbe incastonata nel pensiero dello Stato moderno”, si legge in uno studio francese critico (ANR), che sottolinea come l’universalismo dei diritti verrebbe sostituito da un approccio neoselettivo. In fondo, osservano i detrattori, la maggior parte dei target della vecchia eugenetica erano proprio i poveri, i malati, le minoranze etniche. Oggi il linguaggio è cambiato (si parla di “prevenzione”, “scelta informata” ecc.), ma il risultato rischia di essere lo stesso: ridurre la presenza di categorie considerate problematiche (se non dal governo, quantomeno dal mercato e dal bias sociale). Ad esempio, un documento del National Council on Disability USA ha messo in guardia che il discorso sull’editing embrionale è intriso di pregiudizi abilisti e “scientifici” simili a quelli che portarono alle leggi eugenetiche del Novecento. Questa visione richiama poi l’attenzione su un meccanismo subdolo: l’apparente libera scelta può portare a pressioni sociali implicite. Se l’editing diventasse tecnicamente sicuro e accettato, potrebbe sorgere un “imperativo sociale” a farlo. “Come, tu non correggi il tuo embrione pur potendo? Vorresti un figlio malato?”. I genitori potrebbero sentirsi costretti, per il bene del figlio o per evitare giudizi, ad aderire al trend. La filosofa Alta Charo, pur non contraria a priori al genome editing, ha avvertito che “il rischio più grande è che la discussione continui a presentare visioni così distopiche come realistiche che la gente si sentirà quasi obbligata a ricorrere all’editing per stare al passo”. Questo creerebbe un ciclo per cui la norma culturale diventa quella di avere figli geneticamente ottimizzati. Con la conseguenza che chi nasce “alla vecchia maniera” (via concezione naturale, senza selezioni) viene compatito o visto come figlio di genitori irresponsabili. Si concretizzerebbe così quella “instabilità strutturale” evocata dagli esperti: un mercato genetico dove per garantire un futuro competitivo al figlio devi investire in editing, un po’ come oggi ci si sente obbligati a dare un’istruzione costosa. Solo che qui non tutti avrebbero i mezzi, cementando la stratificazione socio-genetica. Per tutti questi motivi, si può predire che l’eugenetica 2.0 non sarebbe affatto un affare privato innocuo, ma ridisegnerebbe i rapporti sociali in modo iniquo. Oltre alle disuguaglianze, violerebbe l’idea stessa di inclusione e pari dignità su cui si fondano le democrazie moderne. Invece di accogliere la diversità umana (di capacità, di costituzione, di differenze innate), la nuova eugenetica la vivisezionerebbe e la valuterebbe con un metro di efficienza. In un commento sull’“AMA Journal of Ethics”, Eric Juengst nota che proprio l’ombra dell’Olocausto ci rende ancor oggi ansiosi all’idea di controllare i geni umani, perché temiamo di rifare l’errore di “creare gerarchie genetiche da pregiudizi sociali”, tentando di rifare la specie secondo una visione distorta di salute e normalità. Questa visione, in sostanza, suona un campanello d’allarme: l’eugenetica moderna porterebbe ingiustizia – i vulnerabili (poveri, disabili, minoranze) ne pagherebbero il prezzo maggiore e i privilegiati consoliderebbero il loro vantaggio a livello biologico ereditario. L’OMS sottolinea che l’editing va guidato per non “alimentare ulteriori iniquità di salute tra e dentro i paesi”, riconoscendo dunque che il rischio di disuguaglianza c’è. Il gruppo Stop Designer Babies ha apertamente dichiarato: “legalizzare l’HGM condurrà inevitabilmente a una società eugenetica di ‘genetic haves and have-nots’”, immaginando addirittura in worst-case che “chi non può permettersi enhancement possa venire bandito dalla riproduzione”. La recensione di “Control” cita come Rutherford mostri che già nell’eugenetica storica “spesso a essere colpite erano minoranze e poveri (USA prebellici, nazismo) e che sebbene il termine scomparve, la scienza e la politica che la sfruttava persistettero”. Infine, il saggio di Agnese Codignola evidenzia come anche stati “virtuosi” come la Danimarca abbiano attuato controlli riproduttivi su una minoranza (Inuit) fino a pochi anni fa, “dimostrando che la tentazione di uniformare certe popolazioni a un modello ‘migliore’ è sempre viva”, segno di quanto le dinamiche di potere possano facilmente scivolare nell’eugenetica.
Nina Celli, 11 settembre 2025