Un ultimo filone di argomentazioni contrarie riguarda la legittimità giuridica e morale del blocco israeliano e la conseguente illegittimità delle flottiglie che lo violano. Secondo questa prospettiva, spesso sostenuta da esperti vicini ad ambienti militari o governativi israeliani, il blocco navale di Gaza è uno strumento di autodifesa essenziale in una situazione di conflitto armato. Citano a supporto il cosiddetto Palmer Report, l’indagine voluta dall’ONU nel 2011 sul caso Mavi Marmara: quel panel concluse che il blocco navale su Gaza “era imposto come misura di sicurezza legittima” per prevenire l’ingresso di armi, e dunque legale secondo il diritto internazionale. Non solo: il rapporto Palmer sottolineò che Israele aveva diritto di far rispettare il blocco anche in alto mare finché esso rispettava i criteri di proporzionalità. Gli israeliani ribattono alle accuse di “punizione collettiva” dicendo che il blocco navale è accompagnato dalla possibilità di far passare aiuti dopo ispezioni (come avviene ad Ashdod): la legge di guerra permette di bloccare navi neutrali se si sospetta trasportino rifornimenti al nemico, e finora – sostengono – nessuno a Gaza è morto di fame (tesi contestata dalle agenzie ONU, che però da anni parlano di crisi umanitaria grave e ora di vera carestia). In ogni caso, per gli oppositori più duri, mettere in discussione il blocco significa “minare il diritto di Israele a proteggersi dai terroristi”. Accettare che una flottiglia non autorizzata passi, aprirebbe la porta al rischio di contrabbandi su vasta scala: oggi c’è a bordo Greta con pacchi di pasta, domani potrebbe esserci qualcuno con casse di armi sotto falso nome. Il principio di precauzione militare impone quindi tolleranza zero: se si deve scegliere tra qualche condanna diplomatica per uno scontro con attivisti e l’esporre la propria popolazione al pericolo, Israele (o qualunque Stato) sceglierà la prima. Chi sostiene la legalità del blocco spesso vede le flottiglie come una sorta di abuso del concetto umanitario per fini politici. Ad esempio, un’analisi del gruppo “Combat AntiSemitism” definisce la Sumud Flotilla “un grande stunt mediatico per delegittimare il diritto all’autodifesa di Israele”, con “quantità simboliche di aiuti” a bordo. Viene fatto notare che Gaza non è isolata perché Israele vuole “punire” la popolazione, ma perché dal 2007 è controllata da Hamas, che di fatto è in guerra con Israele. In una guerra – affermano – il blocco navale è un mezzo lecito e storicamente usato anche da democrazie occidentali (ad esempio il blocco alleato durante la Seconda Guerra Mondiale). Anzi, ricordano i critici, gli USA nell’ottobre 2023 avevano appoggiato inizialmente l’idea di un “blocco umanitario” di Gaza coinvolgendo navi occidentali, proprio per impedire il rifornimento di Hamas via mare. Dunque, la comunità internazionale comprende le ragioni di sicurezza dietro il blocco, anche se ne deplora le conseguenze civili. Delegittimare completamente il blocco come fanno gli attivisti (parlandone solo come genocidio) rischia di semplificare troppo: ignorare che Hamas resta armato, che continua a lanciare razzi (pur meno di prima), che se il mare fosse aperto arriverebbero probabilmente rifornimenti dall’Iran o altrove – come già successo in passato (ricordano la nave iraniana Karine A intercettata nel 2002 carica di missili). Da questo punto di vista, la Flotilla appare come un’ingenua o ipocrita iniziativa che pretende di agire come se Hamas non esistesse e Israele non avesse alcuna minaccia. Un editorialista del “Jerusalem Post” ha chiosato: “Se fosse davvero solo per aiuti, attraccherebbero ad Ashdod. Il fatto che rifiutino la nostra offerta mostra che dietro c’è altro”. In breve, la critica qui è che la Flotilla nega a Israele la simpatia e il beneficio del dubbio che invece meriterebbe come Stato sotto attacco terroristico da anni – ragion per cui molti nel mondo (anche governi arabi moderati) non supportano affatto queste missioni. Il fronte contrario, dunque, ritiene che Global Sumud Flotilla non sia uno “strumento efficace” per la causa palestinese, ma un atto velleitario che produce più danni che vantaggi. Non porta sollievo tangibile, rischia vite umane, alimenta la propaganda estremista su entrambi i lati e mette in discussione un blocco che – per quanto duro – è parte di una realtà di guerra la cui soluzione deve essere cercata in sede diplomatica, non forzata da civili in barca. L’auspicio di chi è su questa linea è che prevalga la ragionevolezza: magari usando la spinta emotiva suscitata dalla Flotilla non per sfidare l’IDF in mare, ma per chiedere con forza vere tregue umanitarie e corridoi controllati via terra, evitando showdown pericolosi. In altri termini, aiutare i palestinesi sì, ma con i modi e i tempi giusti – e la Global Sumud Flotilla, secondo loro, non lo è.
Nina Celli, 26 agosto 2025