Molti oppositori affermano che la Global Sumud Flotilla sia un’operazione di propaganda politica travestita da missione umanitaria. Israele e i suoi alleati lo sostengono apertamente: la definiscono un “media stunt”, una trovata pubblicitaria orchestrata da attivisti filopalestinesi (spesso vicini a ambienti radicali di sinistra o islamisti) per delegittimare Israele. Gli elementi addotti a sostegno di questa accusa sono diversi. In primis, il rifiuto di qualsiasi compromesso: Israele ha offerto più volte (nel 2010 e ora) di far consegnare gli aiuti via terra previa ispezione ad Ashdod, con persino la proposta di coinvolgere un organismo neutrale come l’ONU nella verifica. Se davvero lo scopo fosse solo aiutare i civili, chiedono i critici, perché non accettare? La risposta dei pro-Flotilla è che il problema è il blocco in sé, ma agli occhi dei contrari ciò dimostra che il vero obiettivo è politico: creare un caso mediatico e mettere in difficoltà Israele, più che nutrire bambini a Gaza. Un diplomatico israeliano nel 2010 dichiarò al Segretario ONU: “Israele si riserva il diritto di usare ogni mezzo necessario per impedire a queste navi di violare il blocco”. Dunque, chi organizza la Flotilla sa benissimo che verranno fermati; se insistono, è perché puntano sulla foto dell’abbordaggio, sul frame di “Davide contro Golia” e sul conseguente guadagno di simpatia per la causa palestinese. Questo, sostengono i detrattori, non è aiuto umanitario ma teatro politico. Un altro punto critico è la scelta deliberata di violare norme e procedure. Pur contestando la legalità del blocco, gli attivisti sanno che per l’ONU Gaza resta un territorio in conflitto soggetto a restrizioni: per inviare aiuti è necessaria una coordinazione quantomeno con l’UNRWA o con le autorità egiziane/israeliane. Ignorare queste procedure significa delegittimare il principio di sovranità e controllo alle frontiere. Se chiunque potesse inviare navi dove vuole in nome di cause umanitarie, argomentano i contrari, il diritto internazionale marittimo sarebbe caos. Ad esempio, perché allora non una flottiglia indiana verso lo Sri Lanka durante la guerra civile Tamil, o navi russe verso il Donbass aggirando i porti ucraini? Si aprirebbe un precedente pericoloso in cui attori non-statali decidono arbitrariamente di entrare in zone di conflitto con il pretesto degli aiuti, rischiando di aggravare le guerre. La neutralità umanitaria viene meno quando un’azione non è concordata con tutte le parti: in questo caso è evidente che Israele – parte in causa – non ha autorizzato la Flotilla. Anzi, un’agenzia umanitaria seria come il CICR (Comitato Internazionale Croce Rossa) non partecipa a queste iniziative proprio perché devono mantenere imparzialità e dialogare con tutti. I volontari della Flotilla invece si collocano apertamente dalla parte palestinese, adottando anche la terminologia di “genocidio” e “apartheid” riferita a Israele. Per i critici, ciò conferma il carattere politicizzato e di parte dell’operazione, incompatibile con un autentico sforzo umanitario (che dovrebbe essere volto ad alleviare le sofferenze, non a colpevolizzare uno dei belligeranti in particolare). In aggiunta, viene spesso rilevato come le flottiglie tendano a presentarsi con molta enfasi morale, salvo poi semplificare la realtà del conflitto, offrendo una narrativa unilaterale. Ad esempio, denunciano giustamente la carestia a Gaza – su cui nessuno discute – ma sorvolano sul fatto che il blocco ha due responsabili: Israele a nord e Egitto a sud. Eppure, raramente si vedono attivisti protestare davanti all’ambasciata egiziana per l’apertura di Rafah, notano i detrattori. Ciò solleva il dubbio che l’indignazione umanitaria sia selettiva e strumentale: colpisce Israele (bersaglio politico) e non altri attori. Allo stesso modo, i contrari ricordano che nessuna flottiglia è mai stata organizzata per portare aiuti ai civili israeliani sotto i razzi di Hamas o per liberare gli ostaggi israeliani rapiti a Gaza. E infatti, per reazione, a metà 2025 alcuni familiari di ostaggi israeliani hanno lanciato l’idea provocatoria di una contro-flottiglia verso Gaza per chiedere notizie dei loro cari. Questo evidenzia come la Flotilla, lungi dall’unire, finisca per accentuare il clima da guerra d’informazione con iniziative contrapposte, distogliendo dall’obiettivo comune della protezione dei civili su entrambi i fronti. I critici sostengono che la Global Sumud Flotilla rischia di minare i canali diplomatici seri per risolvere la crisi di Gaza. Ogni governo ha i suoi meccanismi per fare pressione su Israele – dal condizionare aiuti militari, al richiamo di ambasciatori, a mozioni parlamentari. Queste leve funzionano dietro le quinte e richiedono negoziati delicati. Se però l’attenzione pubblica viene catalizzata da azioni clamorose come la Flotilla, i politici potrebbero irrigidirsi: chi è amico di Israele per non darla vinta agli attivisti, chi è pro-Palestina per non sembrare tiepido rispetto alla “base” militante. Il risultato può essere una polarizzazione che blocca compromessi pragmatici. Ad esempio, l’Europa stava faticosamente cercando un accordo per una missione navale di sorveglianza nel Mediterraneo che garantisse aiuti a Gaza e sicurezza a Israele; ma se nel frattempo arriva una flotta “pirata” (così la definiscono i detrattori) ciò sabota il clima di fiducia necessario per iniziative concordate. In sintesi, dal punto di vista contrario, la Flotilla non solo non è efficace, ma è dannosa: non aiuta i palestinesi in modo tangibile, alimenta la propaganda di entrambe le parti estreme e complica gli sforzi seri di soluzione. La definiscono “gesto futile di radical chic internazionali”, destinato a creare rumore per pochi giorni e poi a cadere nell’oblio, mentre a Gaza tutto resta tragicamente uguale.
Nina Celli, 26 agosto 2025