I critici della Global Sumud Flotilla mettono in discussione l’efficacia concreta di iniziative di questo tipo, sostenendo che si tratta di gesti per lo più simbolici, se non addirittura controproducenti. Anzitutto, sottolineano il divario fra la retorica e la realtà fattuale: la Flotilla si presenta come “missione umanitaria” per portare aiuti, ma in pratica le quantità trasportate da barche di piccole dimensioni sono logisticamente insignificanti di fronte al fabbisogno di Gaza. Le Nazioni Unite stimano che per sfamare la popolazione servirebbero almeno 500 camion di aiuti al giorno, pari a migliaia di tonnellate. Una flottiglia di vele e yacht, per quanto numerosa, potrà al massimo recapitare poche decine di tonnellate di beni, e la storia recente mostra che nemmeno quelle arrivano: sia la Madleen sia la Handala trasportavano un carico esiguo (poche centinaia di kg di alimenti e medicine) e non hanno raggiunto Gaza. Alla fine, osservano i detrattori, quel poco di aiuto viene consegnato a Gaza attraverso i canali ufficiali israeliani, come avvenuto con la Madleen (dopo il sequestro, i viveri sono stati portati via terra a Kerem Shalom). Ciò significa che l’intera operazione si traduce in un nulla di fatto sul piano del sollievo immediato ai palestinesi: “non ha cambiato di una virgola le sofferenze sul terreno”, affermano. Non solo: da una prospettiva critica, queste missioni possono addirittura aggravare la situazione materiale in Gaza in modo indiretto. Ogni tentativo di forzare il blocco spinge Israele a essere più rigido nel controllo degli aiuti e nei permessi, per timore di apparire debole o di aprire una breccia. Ad esempio, dopo la Freedom Flotilla del 2010, è vero che Israele allentò l’embargo sulle merci civili, ma mantenne (e anzi irrigidì) quello sui materiali dual-use e sulle uscite di persone: i gazawi non poterono comunque riprendere a viaggiare né ad esportare liberamente, e negli anni seguenti il regime delle chiusure divenne più sofisticato (liste di divieti più lunghe, requisiti di sicurezza più stringenti). In parte ciò avvenne anche per controbilanciare la “sconfitta mediatica” subita. I critici temono che ora, in piena guerra, un tentativo clamoroso come la Global Sumud Flotilla possa spingere il governo israeliano – già estremamente inflessibile – a reagire irrigidendo ancora di più le condizioni di accesso. Ad esempio: Israele potrebbe sospendere del tutto i corridoi umanitari aerei o via terra nei giorni della Flotilla, come misura preventiva, lasciando perciò passare meno aiuti del solito. Oppure, qualora la Flotilla fallisse, i falchi nel governo potrebbero usarla per giustificare la linea dura dicendo: “vedete, il mondo è contro di noi, non possiamo cedere di un millimetro”. In sintesi, secondo questa visione, i gesti simbolici fanno rumore ma non muovono camion di cibo né aprono valichi; anzi, rischiano di essere un fuoco d’artificio isolato che poi lascia tutto come prima, se non peggio. Un aspetto su cui i contrari insistono è poi il costo-opportunità: quante risorse (denaro, tempo, energia) vengono spese per allestire queste flottiglie, e come potrebbero essere impiegate diversamente? La Global Sumud Flotilla ha dovuto raccogliere fondi per acquistare o noleggiare imbarcazioni, carburante, assicurazioni, oltre a coordinare la logistica di porti in diversi Paesi. Parliamo di centinaia di migliaia di euro, se non di più. Alcuni critici suggeriscono che con quei soldi si sarebbero potute finanziare ad esempio diverse spedizioni aeree di medicinali via ONU (da consegnare a Rafah) o programmi di sostegno per i profughi gazawi in Egitto. Ovviamente, i promotori ribattono che non è solo questione di aiuti materiali ma di sensibilizzazione. Ma per i detrattori questo suona come una giustificazione post-factum: non riuscendo nell’intento umanitario dichiarato, si sposta l’asticella sugli effetti propagandistici. In altre parole, vedono una sorta di ipocrisia di fondo: la Flotilla fa appello al dramma umanitario per ottenere supporto, salvo poi non incidere davvero su quel fronte e rifugiarsi nel valore simbolico. Ciò rischia di erodere la credibilità del movimento agli occhi di chi vorrebbe aiutare Gaza, ma resta deluso dai risultati nulli.
Nina Celli, 26 agosto 2025