Una pace imperfetta non è sempre un sollievo. In alcuni casi, può essere la continuazione del trauma con altri mezzi. Nel conflitto tra Russia e Ucraina, l’idea di raggiungere un accordo di pace a costo di concessioni territoriali, impunità per i crimini di guerra e assenza di riconoscimento giuridico delle violenze subite rischia di cristallizzare il dolore, non di curarlo. Le popolazioni colpite non dimenticano. Le ferite che non vengono riconosciute non guariscono. Le società che non ottengono giustizia restano prigioniere della vendetta, dell’odio e della frustrazione intergenerazionale. Sul piano umanitario, una pace che lasciasse la Crimea, il Donbass e altre regioni sotto controllo russo abbandonerebbe milioni di cittadini ucraini a un destino di repressione, assimilazione forzata, sradicamento culturale. Come confermano testimonianze raccolte dalla “BBC”, da “La Stampa” e da ONG indipendenti, i territori già occupati hanno visto deportazioni, arresti arbitrari, imposizione del passaporto russo, chiusura di scuole ucraine, persecuzione delle minoranze religiose. Accettare questi fatti come “consolidati” nella logica di una pace imperfetta significherebbe condannare queste popolazioni al silenzio e alla cancellazione identitaria. La psicologia collettiva di un popolo come quello ucraino, che ha lottato per la propria libertà, è strutturata attorno all’idea di autodeterminazione, resilienza, difesa della sovranità. Cedere su questi principi in nome di una stabilità fragile potrebbe produrre una frattura identitaria insanabile. Gli ucraini non solo si sentirebbero traditi dal mondo occidentale, ma rischierebbero di rivolgere il proprio dolore verso l’interno, come rabbia contro le istituzioni, senso di impotenza, divisioni sociali tra chi ha combattuto e chi ha negoziato. La pace, in queste condizioni, non unisce ma polarizza. Secondo il sociologo Volodymyr Ishchenko, intervistato da “Al Jazeera” e ripreso in sintesi su “Vietato Parlare News”, “una pace senza giustizia può diventare il seme di una nuova guerra civile”. Non si tratta di speculazione. L’esperienza della Cecenia, della Bosnia e perfino della Palestina dimostra che la mancata risoluzione dei torti, la permanenza dell’ingiustizia e l’assenza di processi di verità possono alimentare una spirale di radicalizzazione e militarizzazione permanente. I rifugiati non tornano, i giovani crescono in un clima di revanscismo, la politica si estremizza. Le ferite invisibili — quelle della memoria e dell’identità — sono spesso le più difficili da curare. Una pace imperfetta che riconoscesse formalmente territori rubati, che chiudesse un occhio sui crimini documentati (bambini deportati, torture, uso della fame come arma), e che ignorasse le risoluzioni internazionali, manderebbe un messaggio devastante alle vittime: “il tuo dolore non conta”. Questo è l’opposto della guarigione. È l’inizio di un’amnesia forzata che alimenta il rancore. Anche sul piano dei rifugiati, la pace imperfetta non risolve automaticamente l’emergenza. Se milioni di ucraini sono fuggiti dalle aree oggi occupate, difficilmente torneranno in territori sotto bandiera russa. La diaspora diventerà cronica. I figli cresceranno all’estero, portando con sé un’identità fratturata. Le città abbandonate non verranno ricostruite. Le campagne minate non saranno bonificate. La pace, in queste condizioni, non riporta la normalità, ma congela l’anomalia. La stessa narrazione internazionale ne risulterebbe compromessa. Se l’Occidente dovesse promuovere o avallare una pace imperfetta, la sua credibilità morale e politica verrebbe intaccata. I paesi baltici, la Moldavia, la Georgia, Taiwan, guarderebbero con sospetto agli impegni di sicurezza occidentali, chiedendosi: “se hanno abbandonato l’Ucraina, cosa ci impedirà di essere i prossimi?” Le promesse non mantenute si pagano con l’instabilità a lungo termine. C’è infine un dato culturale profondo: la pace non è solo assenza di guerra, ma anche riconoscimento reciproco. Come scrive Charles Kupchan su “PBS”, “una pace duratura richiede che le parti si vedano come legittime”. Ma se l’Ucraina fosse costretta a firmare un accordo che ne mutila il territorio, ignora i suoi martiri e svende la sua memoria storica, non si tratterebbe di riconoscimento, ma di umiliazione. E non si costruisce una nazione su una pace umiliante. Una pace imperfetta, dunque, può placare il fuoco sul breve termine, ma alimentare le braci del risentimento sul lungo periodo. Senza giustizia, senza verità, senza riparazione, non esiste riconciliazione. La pace diventa solo un’illusione tra due guerre. Se davvero si vuole salvare l’Ucraina e il suo popolo, è necessario resistere alla tentazione del compromesso comodo e insistere su una pace che non sia solo firmata, ma anche giusta.
Nina Celli, 21 agosto 2025