Il costo più grande di ogni guerra è quello umano. Oltre i titoli di giornale, oltre le mappe territoriali e le dichiarazioni geopolitiche, ci sono vite spezzate, famiglie distrutte, comunità sradicate. In Ucraina, dopo oltre tre anni di conflitto, la popolazione è allo stremo. La continuazione della guerra rischia di produrre danni irreversibili sul piano umano e psicologico. In questo contesto, una pace imperfetta, anche se moralmente insoddisfacente, può rappresentare l’unica salvezza concreta per milioni di persone. Secondo il rapporto Gallup pubblicato nell’agosto 2025, il 69% degli ucraini preferisce una fine negoziata della guerra, mentre solo il 24% insiste per una continuazione del conflitto fino alla riconquista totale. Questo dato, spesso citato nel dibattito strategico, merita una lettura umana: la maggioranza della popolazione è esausta e vede nella pace, anche imperfetta, l’unico orizzonte di normalità possibile. I cittadini ucraini, sottoposti a bombardamenti continui, blackout elettrici, fame, disoccupazione e traumi collettivi, non chiedono giustizia astratta, chiedono tregua, possibilità di ricostruire le proprie vite. Come evidenziato da Jonathan Beale su “BBC News”, nelle testimonianze raccolte sul campo emerge un grido sommesso ma disperato: “Non vogliamo morire per una terra che non vedremo mai”. Molti soldati ucraini, pur fieramente patriottici, iniziano a mettere in dubbio la sostenibilità psicologica di una guerra senza sbocco, combattuta per riconquistare territori ormai desertificati, sotto controllo russo e difficilmente reintegrabili. I civili, invece, sono prigionieri di una spirale di paure: deportazioni, perdita della casa, lutti, povertà. Ogni giorno di guerra in più è un giorno di dolore e perdita Anche gli effetti psicologici sono drammatici. Secondo il Ministero della Salute ucraino, oltre 1,5 milioni di cittadini soffrono di disturbi post-traumatici da stress (PTSD). Le cliniche psichiatriche sono al collasso, le scuole non riescono a contenere l’ansia dei bambini e le donne, spesso sole con figli e mariti al fronte, sono affette da sindromi depressive e da un senso di impotenza cronica. In questo quadro, una pace imperfetta rappresenta una cura imperfetta, ma necessaria: fermare le armi non cancella i traumi, ma li congela e li rende trattabili. Sul piano delle prospettive sociali, una pace imperfetta è preferibile alla guerra prolungata. La ricostruzione di un tessuto sociale frantumato richiede stabilità. Il rientro dei profughi (oltre 12 milioni secondo i dati ONU), la ripresa scolastica, la riattivazione dell’economia e del welfare, sono possibili solo in presenza di un cessate il fuoco strutturato. Come scrive K.M. Seethi su “Countercurrents”, ogni mese di guerra aggiuntivo corrisponde a anni di regressione sanitaria, educativa e civile. Le scuole diventano caserme, gli ospedali diventano obiettivi militari, le città si svuotano o diventano irriconoscibili. C'è anche una dimensione etica, spesso trascurata. Insistere per una pace “giusta” a tutti i costi può significare, nella pratica, chiedere ad altri di morire per un principio. Come scrive Achille De Tommaso su “Nel Futuro”, “la pace giusta è spesso un lusso retorico di chi non combatte, non perde figli, non patisce freddo né fame”. Chi propone soluzioni etiche deve considerare il peso reale che queste hanno sulle spalle dei vivi. In un paese martoriato, salvare vite può essere più nobile che rivendicare simboli. Anche storicamente, le paci imperfette hanno curato popoli devastati. Pensiamo alla Bosnia, dove l’accordo di Dayton del 1995 — pur criticato per le sue ingiustizie interne — ha consentito la fine del genocidio e la lenta ricostruzione. Oppure alla Colombia, dove il compromesso con le FARC ha permesso, dopo mezzo secolo, di interrompere un ciclo di violenza e di iniziare un processo di reintegrazione. In tutti questi casi, la giustizia è venuta dopo, se è venuta, ma la cessazione delle ostilità ha avuto un valore umano superiore. Esiste poi un valore trasformativo nella pace imperfetta. Fermare il conflitto può aprire spazi nuovi per la cultura, l’informazione, la diplomazia, persino per il dissenso interno. Un’Ucraina mutilata ma viva può ricostruire lentamente la propria sovranità con mezzi civili, diplomatici, economici. Una guerra totale, invece, rischia di distruggere completamente le basi di una società viva. Come ha detto Zelensky in uno dei suoi interventi recenti: “Meglio una pace imperfetta oggi, che un paese morto domani”. La pace perfetta non esiste, ma la pace imperfetta può salvare ciò che resta della dignità, della salute mentale e del futuro di un popolo.
Nina Celli, 21 agosto 2025