Nella narrazione ufficiale dei vertici transatlantici, l’Occidente si presenta come garante della pace, difensore dei principi democratici e mediatore imparziale tra aggressore e aggredito. Ma alla prova dei fatti, l’immagine dell’Occidente come arbitro neutrale si sbriciola. Oggi, nel conflitto Russia-Ucraina, le grandi capitali occidentali — Washington in testa, Bruxelles subito dietro — non stanno mediando una pace: la stanno gestendo, dirigendo, e di fatto imponendo, secondo i loro interessi geostrategici. Il vertice di Anchorage dell’agosto 2025 ha rappresentato il punto di svolta simbolico. In quell’occasione, come ricostruito da fonti italiane e internazionali (“BBC”, “The Independent”, “La Stampa”, “Vietato Parlare News”), Donald Trump ha annunciato un formato negoziale bilaterale con Putin, a cui Zelensky è stato invitato a partecipare solo in un secondo momento. L’Europa è stata relegata a un ruolo di terz’ordine. Durante la sessione plenaria, come riportato nel resoconto di “Vietato Parlare News”, la delegazione ucraina è stata ricevuta dopo una lunga attesa, mentre i leader UE hanno potuto esprimersi solo su questioni marginali. Il messaggio è chiaro: le decisioni si prendono altrove. Secondo Patrizio Ricci, l’atteggiamento degli Stati Uniti non ha nulla a che fare con l’equidistanza diplomatica. Trump ha agito come "facilitatore con obiettivo", non come mediatore super partes. Ha fissato le condizioni — scambio di territori in cambio di neutralità, uscita dell’Ucraina dal percorso NATO, garanzie di sicurezza alternative — e ha poi "invitato" Zelensky e gli europei ad accettarle, o perlomeno a non ostacolarle. Come riportato da “The Independent”, lo stesso Trump avrebbe dichiarato a porte chiuse che “la pace si fa alle nostre condizioni”, un’espressione che smentisce ogni ruolo di mediazione imparziale. Il pragmatismo geopolitico dell’Occidente, soprattutto americano, non è un errore, ma una scelta consapevole. Come spiegato nell’analisi pubblicata su “Corriere della Sera” da Federico Rampini, “la priorità americana è contenere la Cina e ribilanciare il Pacifico; l’Ucraina è un dossier da chiudere”. In quest’ottica, l’obiettivo strategico di Washington non è la giustizia per Kyiv, ma la stabilizzazione dell’Europa a basso costo. La pace imposta serve a sganciare risorse, evitare escalation diretta con Mosca, e riposizionare le forze sul teatro indo-pacifico. Anche l’Europa, a dispetto della retorica ufficiale, ha abbandonato la mediazione per passare a una forma implicita di imposizione. I leader europei, da Macron a Scholz, fino a von der Leyen, insistono pubblicamente sulla “pace giusta”, ma in privato, come emerso nei verbali filtrati dal summit di Washington, discutono apertamente dei margini di concessione territoriale e delle condizioni economiche per il riassetto ucraino. I colloqui includono piani per investimenti di ricostruzione, corridoi commerciali alternativi, integrazione di rifugiati e “buffer zones” difensive lungo il Dnipro. Non è la prima volta che l’Occidente agisce in questo modo. Nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan, gli accordi di pace sono stati imposti, mai negoziati tra pari. Il modello dell’“accettare o perdere tutto” è stato applicato anche a Sarajevo nel 1995, a Baghdad nel 2003, a Kabul nel 2020. In tutti questi casi, l’Occidente ha presentato soluzioni “bilanciate”, ma che erano scritte unilateralmente, con minime concessioni alle parti deboli. Oggi l’Ucraina è chiamata a scegliere tra sopravvivere secondo i termini americani o continuare a combattere da sola. Questa dinamica è visibile anche nell’ambiguità delle garanzie offerte. L’articolo 5 “simboleggiato” e non attivato; la promessa di protezione militare “non vincolante”; i fondi per la ricostruzione condizionati alla firma dell’accordo. Come sottolinea Anna Zafesova su “La Stampa”, “Zelensky è stretto tra il dovere di non apparire sconfitto e la pressione a concludere”. La mediazione è scomparsa. Restano solo i dettami geopolitici di chi può (e vuole) archiviare il conflitto secondo priorità proprie. Persino il linguaggio usato nei documenti ufficiali suggerisce un’evoluzione semantica significativa: non si parla più di “negoziato tra le parti”, ma di “roadmap condivisa dagli alleati”, in cui l’Ucraina appare come un esecutore, non un architetto. Il compromesso territoriale, il congelamento dei combattimenti, l’implementazione di forze di interposizione, sono già progettati a tavolino, senza veri margini per l’Ucraina di rifiutare. Il ruolo dell’Occidente nel processo di pace, quindi, non è quello del mediatore, ma quello del regista. I negoziati sono gestiti da Washington, ratificati a Bruxelles e subiti a Kyiv. Non si tratta di malafede, ma di una chiara strategia geopolitica di contenimento del conflitto e gestione degli interessi. In questo scenario, parlare ancora di “mediazione” è una cortesia retorica. La realtà è che la pace, se arriverà, sarà un accordo imposto.
Nina Celli, 21 agosto 2025