Rinunciare all’idea di una pace giusta significa accettare, senza condizioni, la legge del più forte come fondamento delle relazioni internazionali. In un mondo già lacerato da disuguaglianze, instabilità e guerre asimmetriche, ciò rappresenterebbe non una soluzione, ma una pericolosa regressione storica. La pace giusta non è un’utopia astratta: è l’unica forma di pace che può impedire che il conflitto Russia-Ucraina diventi il prototipo di guerre future in cui la forza armata diventa strumento legittimo per ridefinire i confini. Il Diritto internazionale è un pilastro fondamentale dell’ordine mondiale post-1945. Lo Statuto delle Nazioni Unite, la Carta di Helsinki, la stessa esistenza della Corte Penale Internazionale sono fondati sul principio che i confini non si cambiano con le armi. Accettare una “pace possibile” basata su concessioni territoriali, senza una condanna dell’aggressore e senza garanzie giuridiche per l’aggredito, equivale a legittimare l’aggressione stessa. In questo senso, come sottolinea Ursula von der Leyen nei recenti vertici europei (“BBC”, agosto 2025), “non esiste pace senza giustizia, né sicurezza senza verità storica”. A dispetto delle tesi realiste, la storia mostra che le paci fondate sul compromesso dettato dalla forza sono precarie, ingiuste e generatrici di nuovi conflitti. Esempi sono il Patto di Monaco del 1938, che legittimò l’occupazione dei Sudeti da parte della Germania nazista in nome della pace, ma solo per aprire la strada alla Seconda guerra mondiale. Anche l’accordo di Yalta, spesso invocato dai fautori del realismo, produsse un ordine temporaneo ma iniquo, sfociato in una Guerra Fredda durata quasi mezzo secolo, come ricorda Francesco Pontelli (“Nuovo Giornale Nazionale”), e fu proprio la sua natura di “pace imposta” a lasciarci un’eredità di terrore nucleare. Sul piano morale e giuridico, una pace “possibile” che cede territori ucraini a Mosca senza garanzie di responsabilità o restituzione costituirebbe una sconfitta per la civiltà giuridica internazionale. Come ricorda Federico Rampini, anche se in tono pragmatico, una delle opzioni sul tavolo è un congelamento del conflitto in stile Corea del Sud. Ma quella soluzione ha funzionato solo in presenza di fortissime garanzie multilaterali e con uno status di sorveglianza internazionale permanente, altrimenti impossibile da replicare nel contesto ucraino senza l’ingresso diretto della NATO o dell’ONU. Dal punto di vista ucraino, accettare una “pace ingiusta” equivarrebbe a legittimare la perdita del 20% del territorio nazionale, inclusa la Crimea e ampie porzioni del Donbass, in violazione degli accordi di Budapest del 1994, nei quali la Russia si era impegnata a rispettare l’integrità territoriale ucraina in cambio della denuclearizzazione di Kyiv. Anche sul terreno militare e strategico, la tesi del “realismo” non è così solida. La Russia ha ottenuto successi territoriali, ma al prezzo di centinaia di migliaia di perdite umane, sanzioni devastanti, isolamento economico e politico, e un evidente logoramento militare. L’Ucraina, sostenuta da una vasta coalizione internazionale, ha mostrato capacità di resistenza superiore a ogni previsione, come dimostrato nei rapporti dell’Istituto per lo Studio della Guerra (ISW) e del Pentagono. Con il proseguimento del sostegno occidentale e nuove forme di pressione multilaterale, un ritorno alla linea del 2021 non è impossibile, o quantomeno, può essere inserito in una trattativa più equa. Dal punto di vista dell’opinione pubblica, il sondaggio Gallup (agosto 2025) è stato spesso citato dai sostenitori del compromesso. Tuttavia, esso rivela che, pur auspicando la fine del conflitto, oltre il 60% degli ucraini rifiuta qualsiasi accordo che implichi il riconoscimento della sovranità russa su territori occupati. La popolazione chiede la pace, sì, ma non una resa camuffata da diplomazia. Una pace imposta, percepita come ingiusta, non avrebbe alcuna legittimità interna e rischierebbe di innescare nuove forme di guerra civile, guerriglia, o destabilizzazione cronica. C’è, inoltre, un elemento simbolico e strategico che rende indispensabile il concetto di giustizia: la pace giusta serve a dissuadere futuri aggressori. Se oggi la Russia ottiene ciò che ha preso con le armi, domani sarà la Cina a invadere Taiwan, o la Turchia a rivendicare territori greci. Il precedente conterà. Come ha dichiarato Joe Biden nel 2023, “se falliamo nel sostenere l’Ucraina, falliremo nel difendere ogni Stato minacciato dall’espansionismo autocratico”. La pace giusta, quindi, non è solo una questione morale, ma una necessità strategica, un principio stabilizzatore e un atto di responsabilità verso il futuro. Non c’è vera pace laddove l’ingiustizia viene premiata. Le guerre finiscono, sì, ma solo le paci giuste restano. E oggi, più che mai, l’Ucraina e l’ordine mondiale hanno bisogno di una pace che sia non solo firmata, ma giusta.
Nina Celli, 21 agosto 2025